Pubblicati dall’autore fra il 1836 e il 1842, sono unificati dal fatto che hanno come temasfondo la città di Pietroburgo, e alcuni aspetti del mito di Pietroburgo. Sono La prospettiva Nevskij (o Prospetto o Viale della Neva), Il diario di un pazzo, pubblicati insieme con la prima redazione del terzo racconto, Ilritratto, nella raccolta Arabeschi, uscita nel 1836; nello stesso anno, la rivista Il contemporaneo pubblicò altri due racconti, Il naso e Il calesse (quest’ultimo però, non è d’argomento pietroburghese). Nel terzo volume della Raccolta delle opere, pubblicata nel 1842, comparvero Il cappotto, che è il testo più importante e la seconda redazione del Ritratto, assai modificata in confronto alla prima. Nello stesso 1842, sulla rivista Il moscovita, Gogol’ pubblicò il frammento (non pietroburghese) Roma. A differenza dei racconti ucraini (come Mirgorod e Le veglie alla fattoria presso Dika’nka) in cui prevalgono gli elementi folkloristici e festosi, oppure drammatici e stregoneschi, e in cui si sente (pur con tutte le divisioni e contraddizioni e stratificazioni) pulsare una vita relativamente unitaria, legata com’è alla terra, nei Racconti di Pietroburgo i vari personaggi vivono a sè, o rinchiusi nel loro gruppo sociale, quasi senza possibilità di scampo. E l’elemento unificatore è spesso unico: lo spirito malefico che nasce da Pietroburgo, città affascinante e misteriosa, risplendente e demonica, dove sembrano gemere, sotto le luci dei palazzi, le ossa delle migliaia e migliaia di uomini che, a costo della loro vita, sotto la volontà spietata di Pietro il Grande, avevano costruito la città all’inizio del Settecento. Uno dei temi centrali dei racconti, particolarmente espresso nel Cappotto, è la vita del “piccolo uomo” oppresso e umiliato. Ma sarebbe certo sbagliato ridurre tutto a un comune denominatore sociologico: l’elemento fantastico trasfigura personaggi e situazioni, e Gogol’ sa creare fantasie grottesche o inventare situazioni comiche e assurde. L’idea della Prospettiva della Neva (si chiama con questo nome un grande corso di Pietroburgo, che segue il corso del fiume e che è fiancheggiato dai palazzi, molti dei quali costruiti da architetti italiani: era il centro della vita della città, luogo di passeggio, dove si riversavano a ore diverse secondo i ceti sociali tutti gli abitanti) risale al 1831, anno cui si riferiscono alcuni abbozzi di vita pietroburghese. L’autore terminò di scrivere il racconto nel 1834 e lo lesse subito a Puskin, che lo giudicò in modo favorevole. E’ diviso in due parti, ha come due centri, rappresentati dai due protagonisti, Pirogov, dalla coscienza meschina e arrendevole, che pensa solo alla carriera e ha successo, e Piskarjov, onesto, sincero, buono, che vorrebbe migliorare se stesso, e il cui destino si conclude in modo tragico: “Sembra che l’uomo incontrato sulla prospettiva della Neva sia meno egoista di quello incontrato sulla Morskaja, la Gorochovaja, il corso Litejnij, la Mečanskaja, e altre strade dove l’avidità, l’interesse e la necessità trapelano sul viso di quelli che vanno a piedi oppure corrono in carrozze o carrozzelle”. A ogni ora, si può dire, il grande corso si riempie di gente di ceti diversi. Per esempio, alle tre vi si riversano gli impiegati governativi in divisa verde. Verso le cinque, ecco i giovanotti, gli scapoli, ma anche vecchi signori, che passeggiano per guardare le signore. Ed ecco il gia per il corso. A un tratto vedono due belle ragazze, una bruna e una bionda, e ne restano affascinati. Il romantico Piskarjov è affascinato dalla bruna, e la segue. Il tenente Pirogov segue invece la bionda. Ed ecco i destini paralleli dei due giovani dal carattere opposto. Per Piskarjov non si tratta di un’avventura: la bellezza della fanciulla è tale che se ne innamora e la idealizza. La ragazza si volta impercettibilmente e pare che non le dispiaccia essere seguita. Piskarjov la segue, entra nella stessa casa, ma l’arredamento e le altre ragazze che vede non lasciano adito al dubbio. La sua bella e misteriosa ragazza è una prostituta di soli diciassette anni. Per Piskarjov il colpo è terribile. Torna a casa, si addormenta. A un certo punto entra un lacchè in livrea e gli annuncia che la sua signora l’aspetta: proprio la signora che aveva incontrato per strada. Piskarjov, ancora con la sua giacca sporca di colore, segue il lacchè ed entra in un palazzo sfarzosamente illuminato. In una grande sala c’è una splendida festa da ballo e al centro della festa c’è la donna misteriosa. Il povero Piskarjov si trova poi a un tratto nella sua misera camera, davanti al mozzicone di candela che si stava spegnendo. Era realtà o sogno? A un certo punto viene preso da insonnia; disperato perchè non ha più le visioni e non vede più la donna di cui è innamorato, si fa dare dell’oppio da un persiano: tra le visioni, la più bella è quella in cui chiede alla giovane donna di sposarlo. Infine Piskarjov perde la ragione e si taglia la gola. A questa parte del racconto, in stile romantico-hoffmanniano, fa riscontro la seconda parte, la storia del bellimbusto Pirogov, il quale segue la sua biondina, che risulta moglie del rispettabile fabbro tedesco Schiller. Poichè è domenica, Schiller e il suo amico il calzolaio Hoffmann sono tutti e due ubriachi di birra, e lo sfacciato Pirogov non esita a introdursi nella casa del fabbro, ma ne viene cacciato. Ritorna l’indomani e, per avere un pretesto, ordina un paio di speroni, che Schiller non vorrebbe fargli, sospettandolo. Ma la bella tedeschina, benchè un po’ sciocca, è fedele al marito, e il povero Pirogov resta a bocca asciutta (salvo un bacio strappatole a tradimento), tuttavia si consola subito in pasticceria. Con questo “scurochiaro”, con un racconto in cui sono presenti il momento tragico-romantico e un racconto in chiave comica, Gogol’ riesce a darci un quadro vivacissimo delle “due Pietroburgo”, quella, appunto, fantastica e sognatrice, e quella reale, che però è anch’essa ingannatrice. Nel Diario di un pazzo, l’autore rivela un’incredibile conoscenza dei meccanismi della follia, e ci mostra come la pazzia possa essere frutto del male sociale. Un povero funzionario, addetto all’umile incombenza di temperare le penne (d’oca) del direttore, s’innamora dell’irraggiungibile figlia dello stesso direttore. Il divario tra il sogno dell’umilissimo e umiliatissimo impiegato e la realtà, rappresentata dalla posizione sociale del direttore e di sua figlia, è tale che il povero impiegato impazzisce. Il racconto, scritto in forma di diario, segue il progressivo avanzare della follia nella mente del poveretto: il risvolto comico è di gran lunga superato da quello tragico, ma i due momenti sono in equilibrio, l’incredibile equilibrio che forma una delle caratteristiche dell’arte gogoliana. Il progresso della follia è segnato dal confondersi delle date: anno 2000, 25 aprile; Marzobre 86, fra il giorno e la notte; quel giorno era senza data … Da 34 ta Me gdao, febbraio 349. E’ questa l’ultima disperata, pagina del diario: “No non ho più forza di sopportare. Che cosa fanno di me! Mi versano acqua fredda in testa … Perchè mi tormentano? … Conducetemi via. Datemi una trojka di cavalli veloci come il vento! … Mamma salva il tuo povero figliolo … Lo sapete che il bey di Algeri ha un porro sotto il naso?” Il naso è uno straordinario racconto surreale. Un giorno il barbiere Ivan Jakovlevič, appena sveglio, volle prepararsi un bel panino. Presone uno, appena sfornato dalla sua signora, ben munito di sale e di due cipolline, lo aprì. Sentì dentro qualcosa di consistente: era un naso. E persino il naso di qualcuno che gli sembrava di conoscere. “Dove hai tagliato quel naso, belva, ubriacone?” gli urlò la moglie. Povero barbiere: aveva riconosciuto quel naso: era dell’assessore di collegio Kovaljov! Il barbiere non capiva più nulla: anche ammesso che, senza volerlo, avesse tagliato il naso di qualcuno mentre gli faceva la barba, come era potuto finire nel pane? Comunque, il barbiere volle sbarazzarsene. Intanto un altro risveglio fu angoscioso: quello dell’assessore di collegio Kovaljov. Mentre il barbiere tentava di disfarsi del naso, buttandolo nel canale, e veniva pescato, in tale atto, da una guardia, Kovaljov svegliandosi si accorse di essere senza naso. Uscì coprendosi il volto con una sciarpa, disperato, per andare al posto di polizia e, sulla porta, vide una splendida carrozza, nella quale stava seduto, in alta uniforme di grado V (consigliere di Stato) un distinto signore, che era poi il suo naso. Il disperato Kovaljov andò alla ricerca del naso; un giorno un poliziotto glielo riportò avvolto in un panno: ma, ahimè, non si attaccava, anzi cadeva sempre per terra, quel maledetto naso, facendo un lieve rumore di sughero. Lui tentò tutti i sistemi, finchè un mattino, misteriosamente come se ne era andato, il naso si riattaccò alla faccia di Kovaljov che, tutto felice, se lo rivide, compresa una vescichetta. Il racconto lo si può leggere così, nella sua festosa vivacità, come lo si può leggere in varia chiave: quella, per esempio, dello sdoppiamento della personalità. Forse il sogno di Kovaljov era quello di diventare presto o subito consigliere di Stato: lo diventa intanto, il suo rispettabile naso. Il ritratto è di intonazione romantica e ha come tema la maledizione del denaro, il suo potere corruttore, capace di corrompere anche il puro genio dell’arte. Il racconto è “demoniaco” e infatti il vecchio usuraio, rappresentato in un ritratto Čartkov (un pittore povero, all’inizio della sua attività, e di sicuro talento artistico) compra con le sue ultime copeche in un negozio di rigattiere è certamente un’incarnazione del demonio. Čartkov si porta il quadro nella sua stanza e durante la notte fa sogni, o incubi: o forse è la realtà. Il vecchio del quadro, un uomo dal volto bronzeo e dagli occhi terribili, vestito con un costume asiatico, gli parve uscisse dal quadro e versasse sacchetti di denaro. Finalmente si svegliò, terrorizzato. Venne il giorno, entrò il padrone che lo voleva sfrattare per morosità, accompagnato da una guardia: questa scosse il quadro e dalla cornice uscì un sacchetto, prontamente afferrato dal giovane pittore. Conteneva mille ducati. Čartkov aveva risolto i suoi problemi: il suo primo pensiero fu puro, si dedicherà alla sua arte, diventerà un vero artista, potrà lavorare in pace per almeno tre anni. Il secondo pensiero fu impuro: si divertirà, diventerà ricco. Questo pensiero prevalse. In breve tempo il pittore divenne celebre alla moda: egli non seguiva più la voce dell’arte ma le esigenze del denaro e della fama, egli prostituiva l’arte facendo ritratti secondo le volontà dei clienti; inoltre comperava critici e giornali. Divenne famoso. Il potere malefico dell’uomo del quadro si era ormai insediato in lui. Ma un giorno, a una mostra di quadri, potè vedere l’opera purissima di un grande pittore russo che era stato in Italia. Di fronte a quel frutto del puro genio, della grande arte, Čartkov fu sconvolto, capì fino in fondo l’orrore della propria degradazione, si ammalò e morì poco dopo, fra incubi atroci, impazzito. Nella seconda parte del racconto c’è la storia del ritratto, narrata da un giovane pittore, figlio del pittore che l’aveva dipinto. L’autore del ritratto era un artista di Kolomna, modesto e puro, che era riuscito a farsi un certo nome in quella città. Qui viveva un usuraio, un asiatico, l’uomo del ritratto. In genere prestava soldi a tutti e a tempi lunghi, ma a forti interessi. Ma tutti coloro che avevano avuto soldi in prestito da lui si erano spiritualmente ammalati: il male cioè era entrato in loro e, da persone oneste, si erano trasformate, arrivando a compiere persino delitti. L’uomo era ritenuto uno stregone. Un giorno questo usuraio si recò dal pittore e gli commissionò il proprio ritratto: voleva, disse, sopravvivere a se stesso. Il pittore, benchè titubante, accettò, e si recò nella casa dell’usuraio per dipingere. Non riuscì a finire il quadro, perchè gli occhi dell’usuraio pesavano intollerabilmente su di lui. Fuggì addirittura. L’usuraio gli fece rimandare il quadro incompiuto, dicendo che non voleva pagarlo. Poi morì. Il quadro cominciò a operare il male sul pittore stesso, il quale fu invaso dal sentimento dell’invidia nei confronti di un suo giovane allievo. Dipinse animato da questo sentimento, ma al concorso perse, perchè le sue opere avevano tutte l’espressione del maledetto usuraio. Il pittore capì e volle purificarsi, anche perchè in breve la sua famiglia fu straziata da scomparse improvvise (la moglie, la figlia, il figlio minore). Mandò il figlio maggiore, il narratore, in Italia a studiare ed egli chiese asilo in un convento. Non voleva più dipingere prima di essersi purificato. Così per diversi anni si macerò nella preghiera e nella solitudine, finchè un giorno dall’eremitaggio dove si era ritirato si recò dal priore e gli disse di essere pronto a dipingere di nuovo. E dipinse una meravigliosa, purissima, Natività. Il figlio del pittore aveva visto a un’asta il quadro e, per ottemperare alle preghiere del padre, voleva acquistarlo per distruggerlo. Perciò raccontò ai convenuti la storia del quadro. Ma quando terminò il racconto, il quadro era scomparso. In questo racconto Gogol’ espone le sue teorie sull’arte, di matrice idealistica, sulla purezza dell’artista e sul fatto che l’arte-armonia non può che nascere da un’adesione assoluta dell’artista alla sua missione. Gogol’ esalta i pittori russi della “scuola ro-mana” e afferma che l’ Iliade è in senso assoluto l’opera d’arte più alta che abbia mai creato l’uomo. Il calesse è solo un “aneddoto”, una breve vicenda di un tizio che invita generali e alti ufficiali a pranzo per mostrar loro un calesse che secondo lui è bellissimo: però arriva a casa alle quattro del mattino e si dimentica di avvisare i suoi di preparare il pranzo. Si sveglia che è ora di pranzo, mentre stanno arrivando gli ospiti. Disperato si nasconde nel calesse, dove viene scoperto dagli ospiti stessi. Roma è frammento di alto livello stilistico, in cui Gogol’ evoca la sua conoscenza e il suo amore per la “città eterna”, dove era vissuto abbastanza a lungo da conoscerla e amarla.
La trama è solo abbozzata: un principe vede durante le feste di carnevale una donna bellissima, che l’autore ci dice chiamarsi Annunziata, di Albano, una donna la cui bellezza sembrava la più perfetta incarnazione dell’ideale degli antichi artisti. L’autore espone poi la biografia del giovane principe, il suo viaggio a Parigi, il ritorno in Italia, la riscoperta (o scoperta) dell’Italia da parte del giovane, le città del silenzio, e infine Roma. Le ultime pagine del frammento sono dedicate all’incontro del principe con un suo ex cameriere, Peppe, incontro che avviene nella vivacità di una via popolare, con le donne curiose alla finestra. Il principe voleva chiedere a Peppe di scoprire chi fosse la bellezza misteriosa vista durante il carnevale. Ma prima di chiederglielo, dalla piazzetta di San Pietro in Montorio, dalla quale si vede tutta Roma, il principe contempla, affascinato e commosso, la città che si fa “più viva e più vicina”. E qui s’interrompe la narrazione.