Una delle forme capitali, secondo Aristotele, dell’arte poetica, distinta dall’epica per la modalità della mimesi, in quanto l’azione è raffigurata da persone che agiscono drammaticamente (da personaggi messi direttamente a confronto o in conflitto tra loro), e non esposta narrativamente.
Il termine deriverebbe infatti dal dorico dreni (agire) e definisce l’azione scenica indipendentemente dal contenuto (mythos, racconto, vicenda) e dai mezzi impiegati (lingua, stile, recitazione e, eventualmente, musica, canto, danza): il teatro greco include la commedia, la tragedia e il dramma teatrale satiresco, e abbraccia pertanto, nell’accezione aristotelica, tutte le composizioni teatrali.
Il latino fabula (sott. scaenica) è correlativo al greco drama, ma sottolinea in senso proprio la combinazione dei casi, l’intreccio, e ad esso si rifà la nomenclatura rinascimentale per classificare forme aristotelicamente spurie come la favola pastorale (detta da B. Guarii tragicommedia).
Nel Seicento con drammaturgia si designa talora, in Italia, il repertorio dei testi teatrali ovvero delle rappresentazioni, mentre nel Settecento, in Germania, Dramaturg è qualifica istituzionale del poeta drammatico di compagnia, la cui attività si iscrive nella produzione di un repertorio, di una drammaturgia (cfr. la Drammaturgia d’Amburgo di Lessing). Più tardi, nel fortunato Corso di letteratura drammatica di A.W. Schlegel il d. figura con un suo livello estetico e storico che si trasmette a Hegel, per il quale il d. è il terzo in ordine di successione dei tre generi poetici fondamentali e anche il maggiore, in quanto riunisce in sé l’oggettività dell’epica e la soggettività della lirica.
Per gli storici e teorici d’ascendenza hegeliana (De Sanctis in Italia, Lukàcs, Benjamin, Szondi in Germania) d. è termine riassuntivo di una tipologia teatrale che si inaugura con Shakespeare e l’età elisabettiana e, in Spagna, con gli autori del siglo de oro, con Lope e Calderón: come per Schlegel del resto, per il quale è preminente l’esigenza di individuare una tradizione «romantica» da contrapporre a quella classicistica e alle rigide partizioni di genere e ai precetti compositivi.
Il romanticismo favorì la fortuna del termine (per es. con Hugo), che in Italia ebbe applicazioni più riduttive dall’Ottocento al Novecento, definendo il teatro d’argomento storico (P. Ferrari, G. Forzano) o popolare, privo dei caratteri della tragedia (ma già Chiabrera nel Seicento e Metastasio nel Settecento qualificavano come «d. per musica» i loro melodrammi).
Verso la fine del secolo scorso nasceva, sotto il nome di d., un ben preciso genere teatrale in cui venivano dibattuti i problemi più eticamente vivi della società attraverso la presentazione di personaggi comuni, non circonfusi dall’aura eroica o regale dei protagonisti tragici. Il d. è perciò il luogo privilegiato in cui la borghesia, prima nella sua aspirazione al potere, poi come classe dominante, si celebra o si discute, e a esso si trasmette quella profonda serietà di ispirazione sociale che era stata dell’antica tragedia.
Da questo punto di vista, il d. si definisce e tocca le sue punte più alte con Ibsen (in Italia imitato da Giacosa, Bracco e altri) e, sul versante esistenziale, con Strindberg, di cui è evidente l’influsso formale sugli espressionisti e sul d. americano (O’Neill, Williams ecc.). In seguito il vocabolo «d.» è, stato impiegato soprattutto per definire il teatro di parola.