Gruppo indoario: il nome in linguistica può essere anche indo-iranico, indica le lingue che oggi sono parlate in India, Persia e territori circostanti, arrivate nelle zone storiche partendo da Nord-Ovest. Erano popolazioni in contatto con gli altri indoeuropei, poi hanno formato un ramo a sé spostandosi verso Sud-Est, portando elementi arcaici e innovando. Indo-iranico perché condividono il vocalismo, la palatalizzazione delle velari (legge di Collins, Smidt e Saussure) ed altri fenomeni fonetici. Dei due rami quello che ha innovato meno è quello indiano rispetto a quello iranico, che è più in contatto con gli altri popoli indoeuropei essendo esposto sul fronte occidentale. Anche nel lessico si notano questo tipo di fenomeni, parole che in antico indiano appartengono ad un registro alto in area iranica, pur essendo identiche nella forma, assumono significati o più banali o con connotazioni negative: esempio devah, deiuos deus latino, = dio, nell’iranico significa demone. Sanscrito è termine che significa lingua perfetta, sans + kr radice di fare + tos, fatto compiutamente, participio passato passivo. Accanto a questa lingua c’era il pracrito, con altro prefisso, termine che indica lingua naturale; altro filone rispetto al sanscrito con proprie caratteristiche, impiegato in registri più bassi; dei pracritismi sono entrati poi nella lingua alta. Il sanscrito si distingue in vedico, il più antico, e la fase più recente, il sanscrito classico; il vedico ha un accento che può stare anche sulla quartultima sillaba, cosa non possibile nel sanscrito classico in cui non va oltre la terzultima. L’alfabeto usato per il sanscrito è il devanagari o devanagarico, parola che significa “città di Dio”; è un alfabeto complesso perché è sillabico e l’individuazione delle vocali è data dall’aggiunta di un segno > o da altri elementi aggiuntivi. Il sistema di composizione è più ricco di quello delle altre lingue, cioè una parola può legarsi alla seguente in modo diverso a seconda che sia il verbo o altra parte del discorso, i suoni che si trovano alla fine della prima parola, combinandosi con quello della seguente, danno luogo ad un altro suono; tutto può entrare in composizione, quasi frasi intere possono formare un’unica parola, a differenza delle altre lingue flessive in cui ogni parola ha i suoi morfemi ma è staccata dalle altre. Il nome dell’attuale Iran nelle fonti latine e greche era Persia, abitato dai Mada (Medi, cipriota <màdoi, attico <mèdoi); in Persia nelle iscrizioni degli Achemenidi appare la tribù dei Parsha, essi volevano che fosse chiaro fin dove arrivava il loro vasto impero e che le decisioni venissero rese pubbliche in tutto l’impero, erano quindi scritte in vari alfabeti. Iran è la continuazione di una forma Arianam, genitivo plurale che sottintende un nome come terra o patria, da un nominativo aria = signore, dominatore, è rimasto solo il determinante; nell’evoluzione della lingua cade la parte finale, i si riflette sulla vocale precedente, Er>an poi Iran; territorio degli Ari = dei conquistatori. Ci sono tre aree geografiche che corrispondono a tre aree linguistiche: Nord-Ovest, Nord-Est, Sud-Est; Nord-Est = avestico, da Avesta libro sacro di Zarathustra, Avesta è adattamento occidentale di Apastà = preverbio + sostantivo derivato dalla radice di stare, che sta alla base, fondamento della dottrina di Zarathustra. Il principio con cui viene sostituito poi è Ahura Masda, il signore sapiente. La radice sta + formante in nasale è entrato in molti toponimi (Afganistan). A Nord-Ovest abbiamo qualche secolo dopo ma sempre nella fase antica il Medo, di cui non abbiamo quasi documentazione ma qualche parola è conservata da Erodoto. Questa zona è stata sottomessa dai governatori del Sud, parenti di Ciro e Cambise; dopo la conquista parte dell’amministrazione del Nord è stata assorbita dal Sud, i funzionari che parlano la lingua del Sud vi inseriscono tratti appartenenti a quella del Nord. A Sud abbiamo l’antico persiano, di cui abbiamo testimonianza rilevante nelle iscrizioni di Persepoli ed altre località, che si riferiscono per la maggior parte al periodo dei sovrani achemenidi, appartenenti alla dinastia fondata da Ahamanish, in greco hAchemènis, nome composto interpretato come colui che ha sentimento (manish) di amico (aha); la radice della seconda parte è quel *men mon che vuol dire ricordare e ha tante sfumature, aha ha un corrispondente nel latino socius: anche in iranico sibilante iniziale dà aspirazione, o corrisponde ad a, la velare palatale diventa aspirata; socius latino è colui di cui è propria l’amicizia, non colui che segue. La grafia di queste iscrizioni è cuneiforme, decifrata a tappe successive tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento; prima si è capito che un determinato segno separava le parole, poi si sono riconosciuti simboli che indicavano l’abbreviazione della parola re, poi Grotefend confrontando iscrizioni di diverse località capì qual era questa parola. Il termine con cui venivano chiamate le lettere delle iscrizioni antiche con quella forma era litterae cuneatae, da qui cuneiforme. Grotefend ipotizzò la presenza in posizione 2 della parola rex, e in posizione 3 un altro termine che differiva solo per la finale, dunque ipotizzò che fosse il genitivo; questo in tutte le iscrizioni dell’area, la chiave fu notare che alcune parole erano in posizione fissa; l’epiteto re dei re ricorre come superlativo anche in lingue non indoeuropee; in posizione 1 ci poteva essere il nome dei re (esempio di metodo combinatorio). Questa lingua presenta forme penetrate dal Nord, proprio nei formulari che aprivano le iscrizioni si faceva riferimento ad istituzioni del Nord. A Nord-Est nella fase successiva all’avestico ci furono altri dialetti, saco o saiio lingua degli Sciti, cotanese; a Nord-Ovest abbiamo il partico che segue il medo ed è una lingua di una popolazione che ha sentito profondamente l’influsso del mondo greco a più riprese: lo vediamo da un atto di vendita redatto in greco dai parlanti partico, ma anche da un atto pubblico come una legge di successione, era la prova dell’esistenza di un bilinguismo, si era in grado di capire sia il partico sia il greco; poi ci sono monete emesse dai sovrani partici che portano la legenda in greco, l’elemento straniero era presente ed accettato in questa realtà; anche le fonti classiche come Plutarco ci informano che dopo la sconfitta di Crasso venne rappresentata in quest’area una tragedia di Euripide in greco; Alessandro Magno arrivò nella zona Nord-Est cioè nella Battriana, altra ripresa dell’influenza greca. Testi partici sono stati rinvenuti a più riprese anche in anni recenti e pubblicati in seguito: gli iranisti avevano supposto l’esistenza di parole partiche, ma la documentazione mancava; man mano i testi hanno restituito la documentazione e confermato le ipotesi che gli studiosi di iranico avevano formulato sulla base delle altre lingue e della documentazione del vicino armeno. Nella fase moderna a Nord-Est abbiamo afgano, pashtu ed altri dialetti indoeuropei; a Nord-Ovest abbiamo i dialetti curdi anch’essi indoeuropei, e quelli caspici delle popolazioni affacciate sul mar Caspio; a Sud-Est abbiamo il farsi o persiano moderno.
Solo dal 1875 si può parlare di lingua armena, prima si pensava che essa fosse uno dei tanti dialetti iranici in quanto contiene molte parole di origine iranica. Il merito della dimostrazione dell’indoeuropeicità dell’armeno va al neogrammatico tedesco Hubschmann, il cui lavoro ricalca quello che l’orientalista tedesco Schròder aveva scritto nel 1711. Secondo gli studi di Hubschmann ci sono in questa lingua parole tipicamente armene, cioè di origine indoeuropea, Schròder le aveva definite vocabula eius (linguae) propria, proprie di quella lingua, non poteva parlare di indoeuropeo; Hubschmann parla poi di parole persiane presenti nell’armeno, Schròder le aveva chiamate vocabula Parthica cioè persiane; poi c’erano prestiti greci in armeno, vocabula Graeca; parole siriache, vocabula Caldaica. Schròder nel suo thesaurus dell’armeno aveva notato un nucleo originario e la presenza di prestiti greci, siriaci e iranici, e Hubschmann utilizzò esattamente questo schema. Resta però il problema dell’altissimo numero di parole straniere soprattutto dall’area iranica; l’Armenia è una regione posta a Sud del Caucaso che fa da barriera naturale, ma per il resto è esposta agli influssi esterni, ben due dinastie iraniche si sono insediate sul trono d’Armenia dopo la breve fase romana, gli Arsacidi (primi tre secoli della nostra era) e i Sasanidi (III-VI secolo d. C.), la prima fu una dominazione tollerante, la seconda repressiva: lo capiamo dal lessico armeno e dalle corrispondenti forme iraniche, si possono far risalire al periodo arsacide parole iraniche riguardanti la vita di tutti i giorni, oggetti di uso comune che denotano rapporti pacifici; nella fase successiva i prestiti diminuiscono e riguardano solo l’amministrazione, sono osservazioni sociolinguistiche che ci mostrano la differenza tra i due periodi. La documentazione scritta dell’armeno è piuttosto tarda, parte dal 450 d. C. circa ed il primo testo che abbiamo è la traduzione della Bibbia; sappiamo che la lingua era parlata perché abbiamo citazioni di canti popolari, dovevano esserci già manifestazioni scritte non pervenuteci da prima di quell’anno. Trattandosi di testo sacro la traduzione è un’opera di notevole pregio anche sul piano letterario, gli Armeni sostengono di aver accettato il cristianesimo come religione di stato nel 303 a. C., forse già in epoca apostolica il Vangelo era predicato in Armenia. Il 303 è la data ufficiale e in seguito fu elaborato l’alfabeto per scrivere in una lingua con un sistema fonologico così complesso.
Quello che viene ricordato come inventore dell’alfabeto è Mesrop Mashthoc, venerato dagli armeni; l’alfabeto si ispira a quello greco non tanto nella forma delle lettere quanto concettualmente. Per esempio il digramma ou indica o lunga chiusa, e così in armeno ou due grafemi per il suono o chiuso; il greco però è il più ricco di grafemi. Si capisce che la traduzione della Bibbia fu eseguita da un’équipe dal fatto che una stessa parola che nel testo di partenza ha un medesimo significato veniva tradotta in maniere diverse, i traduttori avevano glossari o altri testi teologici diversi; probabilmente fu tradotta dal greco ma forse c’era anche una versione siriaca. Dopo la Bibbia furono tradotti numerosi altri testi greci, prima tutti quelli utili alla cristianizzazione e all’interpretazione del testo sacro, poi tra il VI e l’VIII secolo anche testi di Aristotele e Platone o opere di retorica o su vari aspetti della cultura greca. L’interesse per noi sta nel fatto che a volte la versione armena restituisce testi di cui è perduto l’originale greco (Te Deo); inoltre spesso queste traduzioni o rimandano a un filone della tradizione diretta greca, o si discostano del tutto dai codici che conosciamo e rappresentano un testimone in più nella tradizione indiretta, in certi casi fortunati ci conservano una lezione migliore di quella dei manoscritti. Oltre a questo interesse che riguarda la filologia classica, queste traduzioni servono a ricostruire un ambiente che sentiva l’influsso della cultura greca. La lingua armena ha subito una rotazione consonantica molto simile a quella germanica, le sonore indoeuropee sono diventate sorde, ma i due fenomeni sono solo analoghi avvenuti in maniera indipendente, che non possono essere connessi con legami genetici. Si è perso anche in armeno il genere, è abbondante l’uso dell’articolo posposto, che tipologicamente esiste anche nelle lingue settentrionali e nel romeno ma è un fatto indipendente; l’articolo determinativo indica differenze spaziali. Altra caratteristica di questa lingua è l’essere una lingua saten, però c’è una traccia delle originarie labiovelari poiché pur essendo esse confluite nelle velari vediamo che davanti ad e ed i quelle che erano labiovelari si palatalizzano, le velari semplici non subiscono modificazioni; nel sanscrito invece vale la legge Collins-Smidt-Saussure, tutte le velari si palatalizzano davanti ad e ed i. Oggi l’armeno si parla nell’Armenia ex repubblica sovietica e nelle sue colonie sparse per il mondo, che si sono costituite dopo il genocidio e la diaspora degli anni Venti; due centri culturali importanti sono l’isola di San Lazzaro a Venezia con biblioteca di testi armeni e il convento dei padri mechitaristi di Vienna, dove si pubblicano e stampano testi in lingua armena. In epoca medievale l’armeno ha subito un’altra rotazione nella zona della Cilicia: l’armeno orientale ha pronuncia più classica, nell’armeno occidentale è modificata (orientale consonanti sorde, occidentale consonanti sonore); tuttavia le differenze non sono così marcate da non consentire di leggere agevolmente i testi antichi.
In Anatolia troviamo la lingua ittita decifrata nel 1916 dall’orientalista boemo Hrozni: erano venute alla luce dagli scavi archeologici tavolette con scrittura cuneiforme che risultavano leggibili ma non interpretabili, e Hrozni suppose confrontando più iscrizioni che in una certa sequenza ci fossero le parole “nu nindan ezateni wadar ecuteni”, e pensò che questa lingua fosse indoeuropea: nu = nùn / nù del greco, nun del tedesco, nunc del latino con significato di ora; teni torna in due parole e pensò che fosse lo stesso elemento, la desinenza di seconda persona plurale dell’imperativo, questo era il verbo e la parola precedente in entrambi i casi il complemento oggetto (desinenza an = am latino); ezzateni es edo mangiare, dunque complemento oggetto il pane; seconda parte wadar complemento oggetto di un verbo di bere, cu è come chèo cheùo del greco grado ridotto; wadar hùdor water acqua. Era questo un tentativo che funzionò, da allora si diedero significati fonetici ai segni e l’ittita si capisce oltre a leggersi. Questa è una lingua indoeuropea di 200 anni più antica del sanscrito, e in qualche testo ittita ricorrono nomi dell’antico indiano; con l’ittita si pose il grave problema delle laringali. Queste tavolette sono state trovate poco lontano da Ancara e sono l’archivio del regno ittita; si è pensato che questo popolo fosse autoctono e che gli indoeuropei si fossero spostati da quest’area in altre direzioni; era sviluppata l’agricoltura e ciò ben si accompagna col fatto che gli antichi indoeuropei fossero agricoltori. L’ittita cuneiforme era una lingua kentum e accanto ad esso ci sono lingue come lidio e licio di scarsa attestazione.
A Nord dell’India c’è il tocario o tocarico, lingua scoperta nel 1920 appartenente al gruppo kentum nonostante la collocazione geografica, e il suo primo studioso fu il tedesco Weber; il tocario fu suddiviso in due varietà ed è rappresentato e testimoniato da traduzioni di testi buddistici fatte tra il VI e il X secolo d. C.; si capì subito qual era il testo di partenza e fu relativamente agevole leggere e capire questa lingua. È importante perché ha caratteri occidentali in un’area orientale e rimette in discussione problemi che si credevano risolti dopo la scoperta dell’ittita.
Il frigio è lingua balcanica di documentazione ridotta, abbiamo testimonianze che partono dal XII secolo a. C. di questo popolo che era stanziato prima nella penisola balcanica poi in Asia minore dove ebbe contatti con gli Ittiti e fu poi sottomesso dai Persiani; la lingua è testimoniata da iscrizioni antiche e di epoca cristiana molto più tarde, molto brevi e soprattutto di tipo funerario. Spesso si unisce al frigio il tracio o trace (tracofrigio), sempre lingua balcanica parlata nell’odierna Bulgaria; i Traci erano numerose tribù bellicose, presso i quali forse nasce il culto di Dioniso; la lingua è saten e testimoniata da iscrizioni, nomi propri e brevi testi.
Il macedone inteso come lingua dei Macedoni ha anch’esso scarse attestazioni, che ci interessano per capire meglio le opinioni dei Greci sulle lingue e i costumi dei vicini: abbiamo così poco perché i Greci non hanno voluto trasmetterci nulla, per loro tutte le altre lingue erano barbare mentre c’era tra essi unione “di sangue e di lingua” stando ad Erodoto.
Il greco è testimoniato nella sua fase più antica dal miceneo, decifrato nel 1952 da Ventris, architetto inglese abile nel maneggiare codici linguistici: egli intuì che la lingua delle tavolette micenee era il greco, ed aiutato dal grecista Chadwick le interpretò, ed esse ci documentano una fase anteriore ad Omero. Il greco si presenta in diverse varietà dialettali ma è il frutto di un progressivo avvicinamento, da tante varietà si arrivò ad un’unità, processo simile a quello avvenuto nell’Italia antica dove si parlavano diverse lingue tra cui latino, osco e umbro, che si avvicinano eliminando le differenze per giungere poi a una lingua definita. Uno dei primi a trattare scientificamente i dialetti greci all’inizio dell’Ottocento fu Ahrens; il greco ha fornito la base del lessico scientifico dell’Europa e non solo.
Il gruppo illirico, lingue parlate dalle popolazioni dell’Illiria sempre nella penisola balcanica, comprende la fase remota di due entità, messapico e albanese. Il messapico era anticamente la lingua dei Messapi della penisola salentina, ed abbiamo numerose ma brevi iscrizioni che la testimoniano; è indoeuropea come si evince dalla fonetica, troviamo in essa nomi di divinità greche trasferite, per esempio Afrodite riprodotta come Aprodita. L’albanese è testimoniato molto tardi, dal 1500-1600 d. C., e si divide in due varietà dialettali, ghego a Nord e tosco a Sud, e negli anni Ottanta studioso dell’albanese fu Meyer. L’albanese mantiene come l’armeno traccia delle tre serie di gutturali, e manca di per sé di una terminologia marinara specifica: l’Albania si trova sul mare, quindi se si fossero stabiliti lì nelle migrazioni indoeuropee e fossero quindi autoctoni dovrebbero avere nel lessico una terminologia relativa al mare e alle attività che vi si svolgono, mentre in albanese essa proviene o dal greco o dalle lingue romanze, dunque si tratta di prestiti dalle lingue straniere. La soluzione che si è trovata per dimostrare l’indoeuropeicità di lingua e popolo è che gli albanesi si sarebbero stanziati prima all’interno nelle zone montagnose e in un secondo momento sarebbero discesi sul mare ed avrebbero preso i termini dai loro vicini; se anche li avessero avuti di per sé li avrebbero persi acquisendone di nuovi all’arrivo sulle sponde dell’Adriatico. L’albanese è parlato anche in alcune isole alloglotte della Calabria e della Sicilia, che ne parlano una varietà antica e conservata fin dal Medioevo dopo l’arrivo in Italia dei primi albanofoni.