L’aspetto è la categoria grammaticale del verbo che descrive un’azione in base a parametri diversi, tutti legati alla dimensione temporale interna all’azione stessa: durata, tipo di svolgimento, grado di compiutezza.
La categoria del tempo colloca l’azione sull’asse cronologico esterno a questa, rispetto al momento dell’enunciazione (“andammo al cinema”, “andremo al cinema”), o prendendo come punto di riferimento un’altra azione (“dopo essere stati al cinema, tornammo a casa”, “andremo al cinema dopo che avremo cenato”). Nel primo caso si ha la distinzione tra tempi passati, presenti o futuri; nel secondo il tempo segnala il rapporto di contemporaneità, anteriorità o posteriorità che esiste tra le due azioni e individua opposizioni come quella tra passato remoto e trapassato prossimo, o tra futuro semplice e futuro anteriore. I tempi possono essere semplici, se costituiti da un’unica forma verbale (sei, andavamo, cenerei, tornerò…), o composti, se derivano dall’unione di ausiliare e participio passato (sei stato, eravamo andati, avrei cenato, sarò tornato).
Se si analizza il periodo “Ieri ti scrissi una lettera. Mentre scrivevo, ripensavo al nostro ultimo incontro”, si osserva che la differenza tra scrivevo e scrissi non è legata al tempo verbale (entrambi i verbi si riferiscono allo stesso evento collocato nel passato), ma all’aspetto dell’azione: il passato remoto scrissi la rappresenta come conclusa, mentre l’imperfetto scrivevo ne sottolinea la durata.
Il sistema verbale italiano dispone di svariati mezzi per esprimere l’aspetto verbale. Può affidarsi a risorse morfologiche, legate alla flessione del verbo, come nell’opposizione tra passato remoto scrissi, passato prossimo ho scritto e imperfetto scrivevo; a una determinata scelta lessicale, per cui arrossire ha valore ingressivo, cioè individua il momento iniziale dell’azione, mentre essere rosso indica uno stato durativo; a strumenti sintattici (come le perifrasi stare, andare + gerundio, con valore progressivo; mettersi a, prendere a, darsi a + infinito, con valore ingressivo; finire di + infinito, con valore conclusivo) e derivativi (così i suffissi -ellare e -icchiare, ad esempio in saltellare e dormicchiare, indicano che le azioni di saltare e dormire avvengono in modo intermittente o attenuato).
Il presente esprime la contemporaneità fra il momento in cui l’azione avviene e quello in cui è enunciata (“scrivo questo testo”). Tuttavia il valore temporale può passare in secondo piano rispetto al significato aspettuale; il presente infatti si usa per evidenziare un’azione che si ripete con regolarità, e dunque si estende al passato e al futuro (presente iterativo o abituale: “l’autobus per Firenze parte alle sette e quaranta”) o addirittura, per la sua validità universale, a una dimensione fuori dal tempo (il presente acronico delle definizioni scientifiche e dei proverbi: “uno più uno fa due”, “l’amore è cieco”). Il presente può inoltre sostituire il passato remoto, per dare maggiore immediatezza ad una narrazione (presente storico: “l’Impero romano crolla nel 476”), ed è impiegato al posto del futuro, soprattutto nel registro colloquiale, laddove l’indicazione del futuro è affidata ad avverbi e complementi di tempo (“torno tra pochi minuti”).
Spostando l’attenzione sui tempi del passato, occorre ricordare che in latino esisteva l’opposizione aspettuale tra il tema di perfectum (da perficere = portare a termine) e quello di infectum (come imperfectum = non portato a termine): il primo indicava l’azione nel suo risultato ed era tipico del perfetto, il secondo era il tema del presente e dell’imperfetto e rappresentava l’azione, considerata come non conclusa, nel suo svolgimento.
Come il presente l’imperfetto italiano coglie l’azione nel suo sviluppo, situandone durata (“pioveva da giorni”) o ripetizione (“la sveglia suonava ogni mattina alle sei”) nel passato: l’imperfetto esprime l’aspetto durativo di un’azione incompiuta, o meglio di “un’azione passata le cui coordinate (momento d’inizio, conclusione, ecc.) restano inespresse” (Serianni). In questo contrasta con il passato remoto, erede del perfetto latino, che invece presenta l’azione come avvenuta in un particolare momento del passato e lì conclusa, cioè ne esprime l’aspetto puntuale.
Un tipico valore dell’imperfetto è quello descrittivo, utile nel delineare luoghi, personaggi e situazioni, mentre i tempi perfettivi (passato remoto e presente storico) servono a scandire le tappe di un racconto. L’imperfetto assume però valori aspettuali perfettivi in alcuni usi della lingua letteraria e giornalistica (imperfetto narrativo: “al quinto minuto della ripresa la squadra ospite pareggiava”).
L’imperfetto può poi spostarsi dal piano della realtà proprio dell’indicativo per assumere valori modali diversi: con valore conativo indica che un’azione non si è compiuta, ma è rimasta allo stadio di progetto o di auspicio (“per poco non arrivavo prima io!”); con valore attenuativo (imperfetto di modestia) serve ad smorzare il tono di una richiesta (“volevo mezzo chilo di carne”); è usato dai bambini nei loro giochi (imperfetto ludico: “facciamo che eravamo due gnomi”) e da chi descrive sogni ed evasioni nell’irreale (imperfetto onirico: “mi trovavo in un labirinto senza uscita”); infine nel parlato colloquiale indica sempre più spesso ipotesi e relative conseguenze che non si sono realizzate (“se avevo tempo, venivo a trovarvi”).
La distinzione tra passato remoto e passato prossimo non riguarda la distanza temporale dal momento in cui si parla o si scrive, ma il fatto che si considerino o meno gli effetti che l’azione ha nel presente. Così, dicendo “Manzoni compose due tragedie”, si vogliono circoscrivere i limiti cronologici dell’azione compiuta nel passato (“tra il 1820 e il 1822”), ma una frase come “Manzoni ha composto due tragedie” mette in luce nello stesso tempo la compiutezza dell’azione e la sua attualità (poiché le sue opere possono essere lette ancora oggi).
Il trapassato prossimo indica un’azione passata anteriore ad un’altra, anch’essa collocata nel passato (“ero da poco rientrato a casa, quando il telefono squillò”); il trapassato remoto, ormai raro, ha un valore analogo: lo si trova in frasi temporali, in correlazione al passato remoto (“non appena le guardie se ne furono andate, il ladro mise in atto il suo piano”).
Dal punto di vista temporale il futuro semplice colloca l’azione in un momento successivo all’enunciazione; dal punto di vista del valore modale può sovrapporsi all’imperativo (futuro iussivo: “farete ciò che vi dico”) o attenuare un’affermazione presentandola in forma dubitativa (futuro suppositivo: “peserà cento grammi”). Il futuro anteriore copre anche quest’ultima funzione (“avrai commesso un errore”), ma soprattutto è usato per indicare un’azione futura che si presuppone compiuta anteriormente ad un’altra, anch’essa futura.