La nozione di s (greco hýpsos, altezza) appartiene in origine alla retorica antica: fa la sua comparsa infatti, come termine di critica letteraria, verso la metà del sec. I a. C., a indicare «grandiosità e magnificenza stilistica», fino a essere consacrata nel celebre trattato Del Sublime, attribuito a un retore del sec. I d. C., tradizionalmente noto col nome di Longino (Pseudo Longino). Questi riconosce il carattere del s non tanto nella qualità formale dello stile (sublime genus dicendi), quanto nella valenza morale ed emotiva dell’esperienza letteraria e significativamente lo definisce «la risonanza di un animo grande» (Peri kypsous, IX, 2).
Il trattato, passato sotto silenzio per tutta l’antichità e il Medioevo, viene dato alle stampe nel 1554 a Basilea da Francesco Robortelli, tardo umanista commentatore di Aristotele. Ha inizio così la sua fortuna moderna e il suo ingresso nel dibattito estetico, che data ufficialmente dalla traduzione francese di Boileau del 1674, pur esistendo una anteriore traduzione inglese del 1652. Da allora il termine e il concetto di s hanno agito profondamente sulla cultura europea, travalicando il tracciato della disciplina retorica, e interessando, per piú di un secolo la filosofia, la poesia, le arti figurative, il gusto e di fatto la definizione dell’esperienza artistica tout-court.
Esiste dunque una storia del termine all’interno della tradizione della retorica antica e una storia della sua diffusione moderna che ne ha modificato i limiti e ampliato il senso, come chiaramente sintetizzato da R. Assunto nel 1967: «La fortuna del trattato Del Sublime nella cultura europea del Settecento costituisce uno dei piú cospicui esempi di come uno scritto di retorica […] possa trasvalutarsi sul piano filosofico, […] fino a promuovere, almeno in sede teorica, una vera e propria rivoluzione del gusto». Ancora sulla storia del s sono gli interventi di S. H. Monc nel fondamentale Il Sublime. Teorie esteticbe (1935, trad. it. 1991); e di H. Bloom nella postfazione a Il Sublime di Pseudo Longino (Palermo 1987).
Il sublime di Longino Del Sublime è un trattato in forma di epistola che Longino indirizza a Postumio Terenziano, suo discepolo. Lo scritto rientra nella polemica tra i retori seguaci di Apollodoro di Pergamo, fautori di un’oratoria scientifica e razionalistica, fondata su un metodo di ascendenza aristotelica, e quelli legati a Teodoro di Gadara, propugnatori di un’oratoria poetica, derivata dall’idea platonica della natura irrazionale dell’arte. Il clima culturale in cui si inserisce vede la trasformazione dell’ideale della bellezza da oggettiva in soggettiva, grazie soprattutto all’estetica stoica, basata sull’idea del godimento della bellezza flagrante dell’evento. Longino, polemizzando con un altro trattato sul s composto da Cecilio di Calatte, retore siciliano vissuto a Roma sotto Augusto, non si accontenta di offrire definizioni del suo oggetto di indagine, ma si prefigge uno scopo pragmatico e didattico: insegnare a conseguire il vero s espressivo.
Questo è considerato non tanto e non solo, come nella tradizione retorica, «la piú alta vetta dello stile», quanto una condizione spirituale e morale, non uno stile ma un effetto (G. Lombardo) che quando si produce nel discorso oratorio o letterario «non porta gli ascoltatori alla persuasione ma all’esaltazione: perché lo scarto imprevedibile che provoca prevale sempre su tutto ciò che convince o che piace» (I, 4).
Con esempi tratti da Omero, Platone, Demostene e anche dalla Bibbia (IX, 9), Longino esemplifica quale sia la vera espressione s, distinta dalla falsa o vuota qualità formale per quanto alta questa possa essere. Distingue una perfezione senza grandezza dalla grandezza senza perfezione, sostenendo che solo la seconda può albergare momenti di s autentico, che dunque si configura come lo «scatto del genio», la «risonanza di un animo grande», capace di coniugare il piano estetico e il piano etico dell’esperienza. Benché la grandezza d’animo da cui il s procede sia innata, al s ci si può educare, sia come autori che come lettori, e nel tentativo di elaborare «una tecnica di ciò che è sublime e di ciò che è profondo» (II, 1), Longino individua cinque fonti: due innate (grandi pensieri e intensità di sentimenti) e tre acquisibili con lo studio (abilità retorica, personalità stilistica, ingegno compositivo). È dall’integrazione tra queste fonti, dunque tra ingenium individuale e ars che si produce l’effetto del s, effetto di esaltazione e straniamento, di elevazione e intensità, che riguarda tanto l’autore quanto il lettore, giacché «la nostra anima, davanti a ciò che è veramente sublime, si solleva, e presa da un’orgogliosa esaltazione, si riempie di una gioia superba, come se essa stessa avesse generato ciò che ha ascoltato» (VII, 2).
Il fondamento morale della grandezza espressiva, il primato, in un’opera, della genialità discontinua sulla qualità uniforme, e insieme, la necessità di temperare le doti naturali al corpus tecnico della tradizione, l’ispirazione all’esempio dei grandi, sono altrettanti motivi che, se da una parte riflettono la situazione del dibattito letterario del sec. I d.C., dall’altra si aprono a fertili fraintendimenti successivi.
Il sublime nell’estetica e nell’arte tra Sette e Ottocento
È Nicolas Boileau, massimo sostenitore del classicismo normativo del secolo di Luigi XIV, a dare alle stampe una fortunatissima traduzione del trattato (1674), nonché la serie di Reflexions critiques sur quelques passages du rheteur Longin, in cui distingue lo stile S in quanto procedimento retorico, dal s in quanto effetto psicologico «straordinario» e «meraviglioso», che si raggiunge al meglio attraverso la semplicità dei mezzi, con ciò conducendo la questione all’interno della teoria classicistica dell’arte.
Ma è in Inghilterra che prende forma quel processo di interpretazione che doveva trasformare il concetto di s nella categoria estetica contrapposta al bello, perno di gran parte dell’esperienza romantica. La ricezione del trattato in Inghilterra si innesta su un dibattito sul patetico e il s religioso (J. Dennis) che porta alla definizione di una poesia suscitatrice di passioni ed entusiasmo, il cui paradigma diviene Milton. Contemporaneamente, la cultura dell’empirismo indaga sui piaceri connessi a tale facoltà (J. Addison).
Con la riflessione di Locke e Hume il problema della definizione e degli effetti del s assume una valenza psicologica; si configura una psicologia delle passioni che allarga il campo del s dalla poesia alla natura. C’è chi vede la causa di questo slittamento di prospettiva nella rivoluzione scientifica operata dagli scienziati inglesi che tra Sei e Settecento formulano una vera e propria «estetica dell’infinito». La riflessione di viaggiatori e filosofi sempre piú spesso prende a oggetto l’immensità del cielo, la vastità degli oceani, le montagne, fonti di ammirazione e orrore (Shaftesbury); mentre godono di grande fama le poesie «stagionali» di James Thomson, che attraverso la descrizione degli effetti delle stagioni sull’animo umano colgono la sublimità della natura, «l’anima universale» in essa rinchiusa.
L’opera che sintetizza le numerose componenti del s e le organizza in un sistema analitico è il Philosophical Enquity into the Origin of our Ideas of Sublime and Beautiful di Edmund Burke (1757). Burke distingue definitivamente il bello dal s e riferisce il bello alla socievolezza, il s all’istinto di conservazione. Affermando che le passioni che riguardano l’autoconservazione e che si riferiscono principalmente al dolore o al pericolo «sono le piú forti di tutte le passioni» e che il s è la piú forte emozione che l’animo sia capace di sentire, Burke rivela l’avvenuto mutamento di gusto che vede il primato del genio, dell’ispirazione, del terrifico sulla misura e sul bello, e che promuove a campioni Shakespeare e Milton, Ossian e Walpole, Salvator Rosa e Michelangelo (a cui Sir Joshua Reynolds dedica nel 1790 il suo ultimo discorso alla Royal Academy, riconoscendolo s anche nel capriccio).
Della settecentesca poetica del pittoresco, che esalta l’effetto d’insieme, il carattere selvaggio, ruvido e irregolare della natura e delle sue rappresentazioni, la poetica del s è complemento antitetico, che include i caratteri emergenti della crisi dell’illuminismo (Argan): la scoperta della natura antisociale dell’artista, dell’energia sfrenata dell’immaginazione, il negativo, il terrore. Il terrore, d’ora in avanti elemento determinante, può provocare piacere (dilettoso orrore) quando la sua causa non minaccia direttamente l’osservatore,
Tra le fonti del terrore s Burke (e tutti i trattatisti che lo seguiranno) annovera l’oscurità, la potenza, la vastità, l’infinità, il silenzio, altrettante figure della poesia e della pittura romantica. Letta e commentata da Lessing ed Herder, recensita da Moses Mendelssohn, l’Inchiesta di Burke innesca nel pensiero tedesco ulteriori sviluppi.
Kant affronta il tema prima nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764), dettate non da un interesse estetico, ma etico-sociale-antropologico («gli italiani e i francesi eccellono nel sentimento del bello, i tedeschi, invece, gli inglesi e gli spagnoli nel sentimento del s; s è l’amicizia, bello l’amore» ecc.); e poi nella Critica del Giudizio (1790), dove l’impostazione trascendentale sposta il fuoco dall’oggetto contemplato al soggetto e alla sua disposizione d’animo.
Anche per Kant il sentimento del s sorge da una minaccia, un «momentaneo impedimento» seguito «da una piú forte effusione delle forze vitali», e poiché l’animo è al contempo attratto e respinto dall’oggetto, il piacere del s viene definito un «piacere negativo». Tra gli scenari suggeriti da Kant si trovano «montagne che si elevano fino al cielo», «profondi abissi in cui le acque si precipitano furiose», che suscitano uno «stupore che confina con lo spavento» e «tristi meditazioni». Provocato dunque dall’effetto di ciò che in natura è assolutamente grande, illimitato, infinito (s matematico) o dallo spettacolo della potenza dei fenomeni (s dinamico), il s consente alla ragione dell’uomo di riconoscersi superiore ai confini della sensibilità, non concettualmente, ma tramite una forte esperienza emotiva, al tempo stesso estetica e morale.
Su questo terreno Kant è seguito da F. Schiller, che nei suoi scritti dedicati al s vi riconosce la riprova della forza morale e razionale dell’uomo, che lo eleva infinitamente al di sopra dei limiti della fisicità. Contemporaneamente Schelling definisce il s come immagine dell’infinito nel finito e A. W. Schlegel (estimatore di Flaxman) rivaluta Longino attribuendogli la scoperta di un’estetica «sensitiva».
È questo il momento culminante della riflessione sul s, a cui corrisponde, in Inghilterra e in Germania, l’attività di artisti che per scelta di temi (Bibbia, Divina Commedia, Paradise Lost) e di linguaggio (preferenza per il disegno a tratto rispetto al colore, rifiuto dell’illusionismo tradizionale) contribuiscono alla definizione stessa del s. In Inghilterra è il caso di W. Blake, poeta e disegnatore visionario, autore di poemi apocalittici e di illustrazioni che risentono del gotico e di Michelangelo. L’esperienza artistica assume con Blake i toni della profezia, del confronto con le forze invisibili, celesti o infernali, dell’universo, che trovano forme inedite attraverso l’immaginazione. J. M. W. Turner, di contro al pittoresco Constable, si confronta con le esperienze del s «dinamico»: tempeste marine, naufragi, valichi di montagne; soggettivizza e rarefà la rappresentazione della natura attraverso la riduzione dei contorni e l’amplificazione della luce, oltrepassando il raffigurabile delle convenzioni dell’epoca.
Oltre a questi una schiera di pittori di varia levatura espose alla Royal Academy, negli ultimi decenni del Settecento, quadri di «genere s», prevalentemente soggetti gotici e ossianici. In Germania C. D. Friedrich lascia una pittura carica di riflessioni sull’uomo di fronte alla natura nei suoi aspetti di s «matematico» (effetto di infinito orizzontale, di altezze elevatissime), che sembrano ispirate allo spirito di Kant. Negli strati di nuvole a perdita d’occhio del Viandante sul mare di nebbia (1817-18), nella coppia che ascende la vetta, nella solitudine del Monaco in riva al mare (1808-10) e dei paesaggi cimiteriali, l’uomo riflette i suoi propri limiti e il senso di trascendenza.
Lo svizzero-inglese J. H. Füssli, esponente del movimento preromantico dello Sturm und Drang, rivisita Milton, Dante, Shakespeare e la Bibbia con grande forza immaginativa, individuando, come fonte, il s Michelangelo. Nei suoi Aforismi fa riferimento a Longino a proposito della teoria del genio; in tutta la sua produzione trionfano i soggetti connessi al sogno, al notturno, al mistero.
Nello stesso periodo un gruppo disomogeneo di artisti attua un rifiuto consapevole della pittura a olio. Attraverso l’uso del solo segno di contorno e di fronte a soggetti estranei al corpus iconografico piú tradizionale, Ph. O. Runge, J. A. Carstens, in certa misura J. Flaxman, lo stesso Blake, cercano di raffigurare uno spazio mentale, sintetico, che permette all’immaginazione di elevarsi e cogliere astrazioni quali lo spazio e il tempo kantiani, la nascita della luce (Carstens); di confrontarsi con le scene piú impalpabili di Dante e Omero (Blake, Flaxman); di sublimare l’estrema varietà della natura in allegorie bidimensionali (Runge).
Per estensione la categoria del s è a volte utilizzata per altri artisti, da Piranesi a Goya a Delacroix, in cui si riconosce uno stato di lotta tra la forma tradizionale e la materia oscura, irrazionale. La riflessione sul s prosegue con Hegel e Schopenhauer, mentre Leopardi nel 1825-26 si cimenta nella traduzione di Longino.
Nel Novecento al s si rifà la corrente decostruttivista americana ispirata a Derrida e H. Bloom, che interpreta il termine hýpsos come alta scrittura, poesia forte, sottolineando l’aspetto di agone e conflitto implicito nella creazione letteraria e nella lettura stessa.