II termine (desunto dalla cultura filosofica del tempo, da Weininger) è stato scelto dagli stessi artisti, Carrà e De Chirico, per indicare un momento della propria ricerca pittorica, e un atteggiamento critico nei riguardi dell’arte contemporanea. Lo si è in seguito esteso a indicare una pittura di evocazione letteraria e di suggestione d’ambientazione figurativa, dapprima presso artisti vicini ai due maestri (opere di Morandi, De Pisis, per tangenza di Sironi, e in scultura di Martini); poi ha connotato un trattamento magico, scenografico, degli oggetti che dalla ricerca di De Chirico si stacca per avviarsi al surrealismo divulgato in Francia. Se, com’è doveroso, ci si restringe alla formulazione originaria, tralasciando le successive metaforizzazioni, andrà notato come accanto ad una abbondante produzione specificamente pittorica, si ha una non meno impegnativa attivita critica e culturale: De Chirico collabora a «Valori Plastici», «II Primato»; Carrà, oltre a dare a varie riviste contributi diversi raccoglie in un volume le proprie idee (Pittura metafisica: Firenze 1919), Savinio collabora a periodici italiani e stranieri. Va aggiunta l’elaborazione di prose contenutisticamente e stilisticamente prossime al clima che i pittori raffigurano: a parte poesie e prose di Carrà e De Chirico, Savinio in Hermaphrodito, 1918, e l’eccellente Mercoledì 14 novembre 1917 di De Pisis, 1918.
Il termine metafisica, da non intendere in accezione filisofica o religiosa, attiene a un modo di presentare la scena pittorica le cui suggestioni vanno oltre la pura delibazione del racconto visivo, la immediata emozione coloristica o stilistica dei soggetti. Pittura scenografica, deve portare chi la guarda a più profonde e intcriori suggestioni, a quel senso di mistero che starebbe oltre il senso apparente degli oggetti e delle presenze. Siamo alla definizione, con mezzi pittorici, di quella sorpresa squisitamente novecentesca nella rappresentazione che sceglie la suggestione dello spettatore più che l’affermazione delle emozioni del pittore. Queste formulazioni (da attribuire a una stagione di lavoro tra il 1915 e il 1920, quando ormai prevalgono in ognuno dei protagonisti altri motivi) sono proposte in polemica contro la continuità dell’arte moderna dall’impressionismo in poi: alla «linea» impressionismo cubismo futurismo (cui pure vien riconosciuta una capacità antiaccademica) Carrà rimprovera, ad esempio, una forma materialistica di descrizione dell’oggetto che non oltrepassa in alcun modo la fase di produzione naturalistica, cioè la rappresentazione convenzionale. Al tempo stesso un armamentario tecnico concettuale come questo indicato è inteso al servizio di emozioni, di sentimenti, di passioni.
Anche se la metafisica non è un vero e proprio movimento nella convenzione delle avanguardie (con un leader, una poetica intorno a cui vi sia solidarietà di intenti; le polemiche tra i protagonisti sono invece quotidiane su ambedue le questioni) rappresenta una volontà di opzione artistica più generale e propone un atteggiamento definito, tanto da attrarre più d’uno nella sua orbita. Valga, come esempio, la conclamata ed esaltata necessità di una nuova educazione e cultura e mestiere dell’artista (pittore e filosofo e poeta contemporaneamente) forte segnale di quella autocoscienza del ruolo e della professionalità che trova conferma, attorno e dopo la prima guerra mondiale, in Europa nei vari intenti di classicismo, e ritorni all’ordine.
De Chirico (1888) ha alle spalle un apprendistato complesso, fra antimpressionismo di cultura tedesca e forti suggestioni di classicismo europeo, da Claude Lorrain ai romantici, con un’attenzione speciale alle suggestioni dei reperti museali (calchi d’arte greca, riferimenti alla Firenze fra Quattro e Cinquecento, Klinger e Böcklin, e relative evocazioni colte). Ha lavorato a Monaco, a Firenze (con importanti letture da Papini e dalla sua narrativa a sfondo pensoso o misterioso), poi a Parigi. A Ferrara, per motivi legati alla guerra, incontra Carrà (1881), pure lui soldato, e avvia una stagione, appunto, di atteggiamento metafisico. Diversa è l’esperienza di Carrà, reduce non già da un apprendistato ma da una non breve, complessa e problematica presenza sulla scena militante, con i futuristi, tra cui è autore di punta. Rispetto a tale militanza Carrà è critico: il non aver dato abbastanza valore alle ragioni plastiche che son proprie della pittura, porta, a suo avviso, questa arte a una rischiosa autonegazione, esponendola alle tentazioni dell’immediata registrazione emotiva delle accelerazioni della vita modernistica. Raggiungimento della forma più adatta alla realizzazione di un pensiero e di una volontà è oggi l’arte, spiega Savinio in veste di interprete di tutte queste premesse. E non è privo di significato che opere di De Chirico come Le muse inquietanti non solo aderiscano a questa premessa ma se ne facciano, allegoricamente, figurazione, ne siano l’immagine. Vastità, solitudine, silenzio in queste e similari tele sospendono il racconto, architetture e personaggi vi imprimono una presenza senza decodifiche immediate. Presto entra in gioco il manichino, cioè una figura che non porta psicologia o referenze umane (secondo il dettato nicciano dell’uomo superiore che sa superare emozioni e motivi immediati), e che via via, oggetto di atelier pittorico, raffigurerà la stessa pittura, come in certe antiche configurazioni delle arti (ancora un procedimento allegorico).
Carrà si muove su altre suggestioni: le cose ordinarie non sanno più rivelare il proprio segreto significato. In termini più generali: tocca alla figurazione pittorica mostrare come le grandi leggi costruttive del mondo e della sua conoscenza possano identificarsi nei frammenti del racconto che il pittore propone. Non suggestioni e analogie culturali o filosofiche Carrà cerca (e qui si radica la sua polemica con De Chirico) ma il dato formale, la forza plastica, l’immagine del ritmo e del rigore. Come i più quotidiani fra gli oggetti possano esser parte di più complessi cerimoniali e rivelino grandi armonie formali è il mistero e lo stupore che gli interni dipinti da Carrà, i personaggi e le cose sono chiamati a offrire (II cavaliere occidentale, 1917, fino a una vera e propria pala sacra in Le figlie di Lot, 1919). In questo travaglio costruttivo Carrà rilegge Giotto assieme a Fontanesi ed al romanticismo italiano, Paolo Uccello accanto a opportuni filtraggi di Derain, Picasso e, soprattutto Henri Rousseau (cui guarda anche De Chirico, che è presente in Soffici e accende talune soluzioni di Morandi).
La fortuna di queste pur differenti suggestioni di De Chirico e Carrà (su cui di fatto si salda l’etichetta di m) è notevole in Italia e fuori, Germania e, con le dovute cautele, Francia: il racconto suggestivo per assenza di una relazione psicologica immediata piacerà alle forze che van componendo le premesse al surrealismo; l’oggettività di citazioni di oggetti che possono esser anche maschere o travestimenti della contemporaneità eccitano in Max Ernst o in Grosz certe messinscene urbane stravolte e alienate cui la Nuova Oggettività tedesca dedica energie.