Fu l’opera della vita del domenicano bolognese Leandro Alberti. Pubblicata nel 1550, ma in realtà compilata dopo oltre vent’anni di viaggi e letture, divenne ben presto un libro di “culto” e assai grandemente chiosato.
Quando le prime copie della Descrittione di tutta Italia apparvero sul mercato librario, nel gennaio del 1550, l’autore, il domenicano bolognese Leandro Alberti, aveva settantuno anni. Ormai anziano, si sarebbe spento due anni dopo, raccoglieva finalmente il frutto di più di vent’anni di letture, ricerche, stesure, cancellazioni e ampliamenti. L’opera che usciva dalla tipografia Giaccarelli di Bologna poteva a buon diritto definirsi l’opera di una vita. Sebbene manchino documenti d’archivio inoppugnabili, è infatti assai probabile che la Descrittione fosse stata messa in cantiere già nei primi anni Venti del Cinquecento, forse proprio a ridosso di quella nomina a Provinciale di Terra Santa (ossia compagno ufficiale del maestro generale dell’Ordine Francesco Silvestri da Ferrara), titolo conferitogli a Roma il 4 giugno 1525, che lo avrebbe portato a visitare, al fianco del Silvestri, i conventi dell’Ordine
disseminati lungo tutta la penisola. Da Roma, dove si tratteneva ancora nella tarda estate del 1525, secondo quanto attestato da una lettera coeva, la comitiva si sarebbe poi spostata nell’Italia meridionale, fino in Sicilia; quindi, risalendo lungo la penisola, nell’Italia centrale, nella provincia venetolombarda e, passate le Alpi, in terra di Francia fino in Bretagna. Qui si concludeva bruscamente il viaggio, per l’improvvisa scomparsa che colse il Silvestri a Rennes il 19 settembre 1528, dopo quasi tre anni di continui trasferimenti. Tra Bari, Otranto, Cosenza Tracce di questo viaggio emergono dagli stralci autobiografici che interrompono la trama erudita della Descrittione, o dalle fonti domenicane d’archivio, ancora in buona parte inesplorate. Apprendiamo così che fra Leandro fu effettivamente a Bari nel 1525, come già preventivato nella lettera coeva e poi ricordato nella descrizione del duomo di S. Nicola («ritrovandomi quivi nel 1525 mi fu mostrato dai venerandi sacerdoti che aveano cura di questo sacrato tempio come già era coperta la volta quale è sopra l’altare, sotto cui giacevano le pretiose reliquie del santo, di lamine d’argento e parimente le quattro colonne che la sostentano») e giunse infine a Otranto, nell’estremità della regione, nel novembre del medesimo anno. Da qui, o più probabilmente dal porto di Brindisi, il Silvestri e il suo seguito si imbarcarono per la Sicilia, a meno che non abbiano proseguito lungo il litorale ionico fino allo stretto. Nessuna data viene in soccorso, purtroppo. Quel che è certo è che fra Leandro si trovava a Catania nel 1526 e si spinse poi alle pendici dell’Etna («mi dicevano gli abitatori del paese che di rado per altra stagione salir si può sopra di esso monte per la grande abbondanza delle nevi che vi sono, eccetto ch’el mese di luglio, che pur vi si può salire, per esser quasi liquefatte le nevi»), prima di far tappa a Siracusa, ad Agrigento e dirigersi quindi a Palermo, dove si trattenne almeno fino al febbraio del 1526. Da qui il viaggio riprese per la Calabria (si trovava a Cosenza nel 1526) e, attraverso la Lucania (era nei pressi di Potenza sempre nel 1526), risalì verso la Campania, in direzione di Napoli: le uniche due date interne alla descrizione della Campania, relative alla visita ai dintorni di Baia e all’antro della Sibilla, rimandano infatti esplicitamente ancora al 1526. Qui però si interrompono i nostri sforzi per ricostruire l’itinerario seguito dalla comitiva domenicana, perché l’autore, a partire da questo punto, si fa avaro di notizie e particolari relativi alla visita ai conventi dell’Ordine.
Questione non irrilevante è se l’Alberti abbia maturato il progetto della Descrittione di tutta Italia solamente al rientro, o se invece avesse già prima in mente, anche se non ancora ben definita, l’idea di un’ampia trattazione geografica in cui organizzare la mole di notizie attinte da fonti classiche e moderne, cui andavano ora ad aggiungersi molte informazioni raccolte in loco. C’è infatti da credere che il domenicano, in vista di una futura rielaborazione letteraria, abbia redatto durante i suoi spostamenti una serie di appunti, nei quali annotava luoghi visitati, particolari curiosi e colloqui con guide locali. L’Alberti sembra aver frequentemente approfittato degli otia durante le visite ufficiali per raccogliere materiale di prima mano, se non addirittura per attingere ai preziosi depositi di fonti scritte rappresentati dalle biblioteche e dagli archivi dei conventi presso cui soggiornava. Si spiegano così, ad esempio, le escursioni erudite, alla maniera degli umanisti antiquari, lungo il litorale partenopeo, o la descrizione minuziosa delle rovine antiche a Cuma, Metaponto, e in tutta la Sicilia; o, ancora, le informazioni raccolte dalla viva voce di eruditi di provincia sulle antiche colonie in Magna Grecia, luoghi in cui certo l’Alberti non ebbe più modo di tornare nel corso della sua vita.
A dare credito all’ipotesi che già intorno al 1525 fra Leandro coltivasse l’idea di un’opera geografica c’è poi un episodio accaduto durante la sosta a Palermo. Qui infatti al domenicano bolognese furono mostrati con grande onore i codici manoscritti contenenti gli Annales di un altro celebre viaggiatore e geografo dell’ordine, fra Pietro Ranzano da Palermo († 1492/93), vescovo di Lucera. Fra Leandro si fermava dunque per alcuni giorni presso il convento palermitano e i suoi confratelli si affrettavano a mettergli a disposizione i «quattro gran volumi scritti con dolce e leggiadro stilo» in cui il Ranzano aveva raccolto pressoché tutto lo scibile umano, dedicando per di più un’intera sezione proprio alla descrizione dell’Italia. L’impressione è quindi che i domenicani palermitani siano venuti in qualche modo a conoscenza degli interessi dell’ospite bolognese e, per fargli cosa gradita, gli abbiano mostrato quella parte degli Annales del loro glorioso confratello, scomparso da pochi decenni, che poteva rivelarsi fonte inesauribile di preziose informazioni anche per le ricerche dell’Alberti. Sebbene ben circoscritta all’interno dell’ampia enciclopedia storica degli Annales, la sezione geografica (più di duecento fogli) era comunque troppo vasta perché fra Leandro potesse usufruirne immediatamente. Probabile allora che l’autore, ancora in una fase di raccolta delle fonti e del materiale ritenuto idoneo piuttosto che di stesura vera e propria, abbia semplicemente trascritto i passi che gli interessavano, o, ipotesi forse ancora più ragionevole, abbia commissionato una copia dell’intera sezione geografica che poté poi ‘saccheggiare’ durante la lunga stesura della Descrittione al rientro a Bologna. Un altro particolare curioso, verificatosi ancora durante la visita alla città di Palermo, sembra rafforzare l’ipotesi che l’Alberti stesse già raccogliendo materiale per un’opera geografico-erudita. Fra Leandro, affascinato dall’architettura moresca di molti palazzi palermitani, progetta di descriverne con precisione uno, per dilettare il lettore curioso. Resosi però conto delle difficoltà immediate, commissiona a una persona del suo seguito un disegno, in base al quale, una volta tornato a Bologna, stenderà la lunga e dettagliatissima descrizione del palazzo: «trovandomi io quivi e vedendo quel palazzo che ancor si vede esser fatto con grande artificio e spesa, deliberai di farlo disegnare quanto era possibile misuratamente, descrivendolo poi a parte per parte per piacere delli curiosi ingegni. Ha la facciata di lunghezza di piedi novanta e di sessantatre di altezza […] ».
Comunque siano andate le cose, è certo che stesura e revisione della Descrittione finirono col diventare per l’Alberti un impegno più gravoso di quanto avesse probabilmente immaginato. Al rientro a Bologna nel convento di S. Domenico, chiuso nella propria cella o fra i banchi della grande biblioteca quattrocentesca a tre navate, come ci piace immaginarlo, fra Leandro lavorò alacremente per cucire assieme i diversi tasselli che compongono l’opera, la cui stesura doveva essere giunta a buon punto verosimilmente intorno alla metà degli anni Trenta. […] Dopo una lunga e tormentata vicenda editoriale protrattasi per quasi due anni, la Descrittione uscì dalla tipografia del bolognese Anselmo Giaccarelli nel gennaio del 1550. All’ultimo momento però fra Leandro, per non accrescere eccessivamente la già cospicua mole del volume (circa 500 carte in formato in folio) e ritardarne ulteriormente la pubblicazione, aveva dovuto rinunciare a far stampare la promessa Descrittione delle Isole, facendo ammenda di ciò in un avviso ai lettori: Nel principio di questa mia Discrittione d’Italia promessi altresì la descrittione dell’Isole attenenti ad essa; vero è che di mano in mano considerando tant’accrescere il volume qual se imprimeva, che cominciai a dubitare se devessi servare la promessa, o no, e così dubioso arrivai circa il fine dell’impressione e vidi esser venuto tanto grande che parea a me eccedere il comun modo dei volumi e così diliberai di concludere detto volume colla descrittione della trionfante città di Vinegia […] promettendo però di dar alla luce dette Isole con alcune curiose antichitati.
La descrizione delle isole sarebbe invece rimasta sullo scrittoio dell’autore anche quando, l’anno successivo, si procedette a una nuova edizione dell’opera (l’ultima vivente l’Alberti), uscita dai torchi della tipografia veneziana di Pietro e Giovan Maria Nicolini da Sabbio.
Nel secondo Cinquecento l’editoria veneziana finì in qualche modo con l’assicurarsi il ‘monopolio’ sulla Descrittione e i tipografi trovarono nel trattato geografico del domenicano un investimento di sicuro successo, al punto che ancora nella nuncupatoria del 1588 l’opera era definita «fruttuoso libro per il quale l’uomo senza patir disagio di viaggi o spesa alcuna può avere piena cognizione de’ siti ne’ quali si ritrovano tutte le isole, città, castelli, ville, promontori, monti, colli, piani, valli, mari, fiumi, laghi, stagni, fontane e bagni di tutta Italia. E anco una narrazione de’ costumi e riti di tutti i popoli e quando ebbero principio esse città e da chi furono edificate e signorie loro e anco gli uomini illustri di tutte le professioni che in esse fiorirono». Nell’arco di soli quarantasei anni, dal 1551 al 1596, si contano ben nove edizioni veneziane della Descrittione, alcune delle quali corrotte da indebite interpolazioni esterne, cui vanno aggiunte due edizioni tedesche della traduzione latina approntata da Guglielmo Kiriander. […] L’intero corpus delle interpolazioni, da quelle introdottesi nell’edizione Nicolini del 1551 sino a quelle firmate Cibo Malaspina del 1568, ormai sedimentatosi nel testo originale dell’Alberti, si riversa inalterato in tutte le edizioni posteriori della Descrittione, senza destare il benché minimo sospetto in tipografi e lettori. Nonostante il tentativo di rassicurare il pubblico dell’avvenuto restauro filologico («Così io ve la
presento in questa mia ultima impressione […] ridotta in quella istessa forma che fu composta dal suo proprio autore, quantumque per il passato sia stata dopo la sua scomparsa in molti luoghi depravata e maltrattata, come dal suo primo originale chiaramente si può vedere»), anche le ultime due edizioni cinquecentesche dell’opera, rispettivamente Altobello Salicato 1588 e Paolo Ugolini 1596, pur omettendo tutte le aggiunte cronologiche introdotte dalle stampe 1577 e 1581, e ripristinando perciò in questi casi la lezione del 1550, conservano incautamente le interpolazioni relative alla famiglia Cibo Malaspina dell’edizione 1568 e quelle a proposito delle città di Brescia e Verona introdottesi nell’edizione del 1551 e in quella del 1561.