I cinque libri o gruppi di satire furono composte in periodi diversi, e precisamente il I libro dopo il 100, il II libro intorno al 116, il III tra il 117 e il 120, il IV nello stesso periodo o poco dopo, il V intorno al 128. La satira I è un prologo, in cui il poeta espone i criteri della sua arte, perchè scriva satire e perchè voglia ricongiungersi agli esempi di Lucilio e di Orazio. La satira II è indirizzata agli ipocriti: è preferibile l’immoralità apertamente professata a un’ipocrita compunzione; certo le ossa dei grandi uomini di Roma fremono di sdegno, mentre i corrotti costumi dei maschi sono oggetto di biasimo da parte di una donna dissipata. Nella III si descrive la vita di Roma, divenuta scomoda e corrotta per la presenza dei Greci. E’ Umbricio che presso la porta Capena fa queste confidenze al poeta: la vita romana è impossibile perchè i buoni e gli onesti sono sempre in coda, c’è arrivismo, adulazione, maleducazione, perfino l’impossibilità di camminare tranquilli per le vie: “Se anche noi pur ci si affretta, un’onda ci si oppone di gente innanzi, mentre in gran fiumana urge alle reni il popolo che segue: un del gomito ci urta, uno c’investe con un pancone, ed una trave questo su la testa ci dà, quello un barile” (trad. di G. Vitali). La satira IV prende le mosse da un atto di ingorda prodigalità del corrotto Crispino, che si è comperato una triglia per il bel prezzo di 6000 sesterzi, e ciò offre occasione a Giovenale per ricordare che al tempo di Domiziano fu portato alla corte dell’imperatore ad Alba un grosso rombo pescato nel mare di Ancona: viene inoltre descritta la tragicomica adunanza del consiglio imperiale convocato da Domiziano per deliberare sul modo più adatto di far cuocere il rombo data la mancanza di una padella di sufficiente grandezza: vince il parere dell’adulatore Montano che caldeggia l’immediata costruzione di una profonda padella. La satira è una parodia del perduto poema di Stazio De bello germanico e contiene una espressione rimasta celebre: vitam impendere vero (“sacrificare la vita alla verità”). La satira V tratta della misera condizione dei clienti e della insensibilità arrogante dei ricchi patroni: vi si parla di un cliente che invitato dal ricco anfitrione Virrone, deve sopportare ogni sorta di villanie; eppure basterebbe che il cliente possedesse 4000 sesterzi, per essere servito signorilmente dallo stesso Virrone. La VI, la più lunga e famosa, dopo un indirizzo a un certo Postumo, che si è deciso a prendere moglie, ci presenta in vari quadretti le varie forme della corruzione delle donne: le adultere, che si concedono ad attori, musicisti e gladiatori (con un accenno a Messalina, che si prostituiva nei lupanari) , quelle belle e nobili che si prostituiscono, dopo aver reso succube il marito, le viziose, l’amante degli eunuchi, la politicante, la brutale, la pedante ecc. La presenza della suocera in casa produce sempre inconvenienti; la castità non esiste più, vigono a Roma le orge sfrenate della Bona Dea. La libidine è imperante; le ricche non vogliono partorire, e mariti e figliastri vivono nell’incubo di morire avvelenati. Una volta invece “una condizione modesta garantiva la castità delle donne latine e le proteggevano dalla macchia del vizio, la casa modesta, il lavoro, il sonno limitato, le mani tormentate e indurite nella lana etrusca, Annibale vicinissimo a Roma e il fatto che i mariti stavano in armi sulla torre Collina” (vv. 287-291). Nella VII si afferma che chi vive dei frutti del proprio ingegno, a Roma vive male: miserevole è la condizione degli intellettuali, i poeti impegnano piatti e mantello, gli storici guadagnano tanto da pagare il papiro, gli avvocati sfoggiano per necessità clientelare un lusso esagerato, i retori devono perseguire in tribunale una modesta mercede, i grammatici che sorvegliano i bambini sono pagati malissimo. L’VIII è diretta a Pontico e tratta della nobiltà della nascita, che deve accompagnarsi alla nobiltà delle virtù; è il merito personale che conta veramente, anche perchè i Romani discendono da bifolchi o da vagabondi ladroni, adunati da Romolo. “La IX è una specie di dialogo fra il poeta e un certo Nevolo, il quale si lamenta dell’avarizia e dell’ingratitudine del suo amatore ma Giovenale lo invita a non disperare: finchè Roma esisterà non gli mancheranno i corrotti clienti. Nella satira X il poeta parla dei beni falsi e veri e, come Persio, tratta dell’inutilità e dei danni dei desideri umani: falsi beni sono la ricchezza, la potenza, la gloria oratoria, quella militare, la longevità e la bellezza; si deve chiedere agli dei sanità di mente e di corpo (orandum est ut sit mens sana in corpore sano). Con la satira XI si deplorano le gravi conseguenze del vizio della gola; la tavola di Giovenale è invece modesta, come modeste erano le cene degli antichi Romani: si potranno leggere Omero e Virgilio e godere i raggi del sole. La XII, dedicata all’amico Corvino, tratta della grazia ricevuta dal suo amico Catullo, sbarcato incolume a Ostia dopo una tempestosa navigazione: Giovenale ascenderà il Campidoglio per un sacrificio di ringraziamento, con sincerità e devozione, diversamente da chi va a caccia di eredità e fa voto di sacrificare elefanti o la stessa figlia pur di ingraziarsi un ricco senza figli. La XIII è una satira di genere consolatorio, dedicata all’amico Calvino, truffato di una forte somma: del resto sono rari gli uomini onesti e il mondo è pieno di gente spergiura: desiderare una vendetta materiale è pensiero ignobile, basta il rimorso per far soffrire il colpevole, che prima o dopo finirà in prigione. Satira-epistola è la XIV, diretta a Fuscino, che ha per tema i cattivi esempi che danno ai loro figli i padri viziosi: ecco il caso del figlio di Cretonio che sperperò tutto il patrimonio per emulare la mania di costruzione del padre o di chi, nato da padre ebreo, osserva tutta la casistica della legge ebraica. L’avarizia poi è il peggiore dei vizi perchè viene contrabbandata come sobrietà: c’è qui una frase divenuta proverbiale: “Maxima debetur puero reverentia” (“la più grande riverenza si deve all’infanzia”). Nella XV Giovenale narra un episodio di cannibalismo accaduto nel 127 a.C. in una rissa tra gli abitanti di Ombo e di Tentira, due cittadine del superstizioso Egitto: veramente deplorevole la crudeltà umana, meglio si comportano le fiere che hanno maggior rispetto reciproco del genere umano. Infine la satira XVI nel breve tratto conservato, indirizzata a un certo Gallio, ricorda i privilegi e i vantaggi della vita militare: dell’autenticità di questa satira si è dubitato. Il mondo di Giovenale è un mondo in fermento; le efferatezze e gli eccessi dell’ultimo periodo del principato di Domiziano sono una causa determinante degli atteggiamenti della sua satira: l’indignatio è il sentimento disinteressato e irresistibile del poeta; in numerosi quadri di vita, Giovenale sembra il poeta tragico della poesia con quel suo costante pessimismo: indignazione e sincerità che danno alla poesia, oltre che un valore umano, anche un valore sociale; inoltre si nota una profonda umanità e una forte sentenziosità.