Circa 10.000 anni fa la glaciazione terminò, lasciando spazio ad un clima molto più mite, l’ideale per lo sviluppo di nuove tecnologie e di una nuova società. Grazie a numerosi studi, condotti in tutta Europa, è stato possibile ricostruire le diverse fasi di questo periodo, che i geologi chiamano Pleistocene, che copre gli ultimi 1,7 milioni di anni e che ha conosciuto numerose oscillazioni climatiche; l’ultima in ordine di tempo, detta interglaciale, è proprio il periodo in cui viviamo, un periodo che per i climatologi è relativamente mite, con una certa tendenza all’aumento delle temperature.
Alcune prove fondamentali di tali oscillazioni sono alla portata dei nostri occhi, e proprio il territorio lombardo, con le sue peculiarità geomorfologiche, si è dimostrato ricco di indizi.-
La disciplina delle forme
Perché una certa regione si presenta con determinate caratteristiche morfologiche? Perché, ad esempio, troviamo una serie di laghetti in pianura contornati da dolci colline, oppure osserviamo erte dai profili aspri e drenate da un sistema di torrenti impetuosi?
Tutto questo è diretta conseguenza della storia geologica di quell’area, che ha determinato genesi e struttura di quella porzione di crosta, e dell’azione modellante degli agenti esogeni sui vari elementi del paesaggio. Di quest’ultimo aspetto si occupa la Geomorfologia, disciplina che non solo riconosce e descrive differenti forme (dagli alvei fluviali alla piana alluvionale, dai circhi glaciali alle colline moreniche) ma permette di ricostruire tutta la serie di eventi che le ha determinate. Per avere un quadro completo devono inevitabilmente collaborare differenti figure professionali, quali il geologo quaternarista (esperto cioè degli ultimi 2 milioni di anni della storia terrestre), il sedimentologo, il geomorfologo, spesso coadiuvati da climatologi, glaciologi ed esperti in analisi fisiche e chimiche (ad esempio sugli isotopi di elementi chimici dell’ossigeno, del carbonio, dell’idrogeno).
Si tratta dunque di un lavoro interdisciplinare e proprio la combinazione delle informazioni ricavate da ciascun specialista permette la ricostruzione di fenomeni a scala globale come le glaciazioni.
In queste schede didattiche, seguendo l’opera degli studiosi, ricostruiremo gli eventi che hanno determinato la forma attuale dei laghi alpini.
Gli agenti del modellamento
La forma del paesaggio è determinata essenzialmente da tre fenomeni, strettamente connessi l’uno con l’altro:
Erosione: insieme di tutti i processi che determinano la degradazione ed il livellamento di un rilievo montuoso;
Trasporto: fenomeno per cui mezzi come l’acqua, il ghiaccio o il vento prendono in carico i detriti e li spostano fisicamente dal luogo di origine al luogo di deposizione. Le dimensioni e la quantità di ciò che viene trasportato dipendono dall’energia che il mezzo possiede;
Deposizione : il mezzo di trasporto non ha più l’energia necessaria e depone il suo carico in un luogo diverso da quello di origine.
Erosione, trasporto e deposizione sono determinati da:
agenti atmosferici (precipitazioni, vento, clima);
agenti fisici (variazioni di temperatura, ad esempio alternanze di caldo e freddo ad intervalli brevi e regolari);
agenti meccanici (corsi d’acqua, maree, moto ondoso, valanghe, ghiacciai, azione combinata di sabbia e vento); agenti biologici (le piante con le loro radici, gli organismi che vivono nel sottosuolo)
È altresì evidente che anche fenomeni geologici come le scosse sismiche, le eruzioni vulcaniche e le frane contribuiscono massicciamente alla morfologia di particolari paesaggi: basti pensare alle aree vulcaniche come i Colli Euganei, i Campi Flegrei o la zona dell’Etna (si parla così di morfologia vulcanica).
L’efficacia dei diversi agenti erosivi dipende da numerosi fattori, tra cui: la competenza del substrato, ovvero la maggiore o minore resistenza delle rocce a venire degradate dal punto di vista meccanico, fisico o chimico. Questo parametro dipende principalmente da composizione, tessitura, struttura e giacitura delle rocce. il clima, che a seconda delle regioni del globo può influire in modo determinante (si pensi in particolare alla fascia tropicale, sottoposta ad elevate umidità, temperatura e precipitazioni oltre ad una copertura vegetale quasi totale);
l’energia posseduta dal mezzo erosivo, che dipende non solo dalla “forza” impiegata dal mezzo ma anche la durata nel tempo della sua azione (ad esempio un torrente in piena è capace di spostare blocchi di dimensioni considerevoli ma per un tempo limitato, un ghiacciaio in centinaia d’anni produce la formazione di valli, laghi e colline, oltre a trasportare a decine di chilometri di distanza i massi erratici).
Un mondo ghiacciato
L’analisi dei complessi morenici che si aprono a valle dei laghi alpini, come per esempio le colline della Franciacorta nel bresciano o quelle della Brianza; lo studio dei paleosuoli ed altri depositi sedimentari, come il Loess; il confronto con depositi simili trovati in Europa centrale; le datazioni relative ed assolute eseguite su reperti archeologici rinvenuti nei cosiddetti ripari; le analisi chimico – fisiche sui ghiacci della Groenlandia e antartici: tutto questo ha contribuito alla ricostruzione del clima e dell’ambiente durante gli ultimi 2 milioni di anni.
Un periodo, il Pleistocene, caratterizzato dall’alternanza di periodi freddi ed avanzata dei ghiacci e periodi dalle temperature miti, quando non addirittura superiori a quella attuale: è questo il caso dell’interglaciale compreso tra le cosiddette glaciazioni Riss e Wurm, periodo in cui le condizioni climatiche permisero la presenza sul territorio italiano di elefanti, ippopotami, bufali e rinoceronti che vivevano in un habitat di savana misto a foresta .
Oggi, nel periodo geologico chiamato Olocene, stiamo in effetti misurando un nuovo riscaldamento, visibile attraverso il ritiro dei ghiacciai sia antartici che alpini, ed accentuato dalle numerose attività umane; non ce ne dobbiamo meravigliare perché oggi sappiamo, dopo un percorso di studi lungo quasi 200 anni, che non è stato il primo né tanto meno sarà l’ultimo.
Massi misteriosi
La teoria glaciale risale alla prima metà dell’ottocento, quando geologi e naturalisti si trovarono a dover affrontare un curioso problema. Le pendici sudorientali della catena alpina del Giura, di natura calcarea, erano costellati di un gran numero di grossi blocchi di granito e micascisto, i cosiddetti massi erratici, che indubbiamente dovevano provenire da molto lontano. Dopo alcuni timidi tentativi di spiegare il fenomeno, fu il geologo inglese James Hutton a proporre l’idea che i blocchi dovevano essere scivolati lungo l’antica valle del Rodano trasportati da enormi ghiacciai. J. Playfair, tra i più fervidi sostenitori della teoria gradualista di Hutton, ribadì con forza questo concetto, ritenendo che l’unico motore possibile per lo spostamento di blocchi di simile massa (oltre le 10 tonnellate) sarebbero stati ghiacciai di dimensioni enormi. Come molto spesso accade nell’ambito scientifico, queste teorie innovative vennero ignorate o vivacemente rifiutate dagli altri studiosi, ma alcuni indomiti raccoglievano nuovi indizi, nuove prove, che dimostravano come i graniti provenissero addirittura dal Monte Bianco. Ad esempio, l’ingegnere Ignace Venetz si rese conto che i depositi morenici si trovavano più lontano rispetto al fronte dei ghiacciai attuali, significando che la copertura di ghiacci doveva essere stata notevolmente più estesa. Persino le persone semplici erano consapevoli che soltanto la forza dei ghiacciai poteva essere responsabile delle forme delle colline e delle valli, come riporta in un suo diario il naturalista Jean de Charpentier.
Chi, però, fu in grado di riassumere tutti i dati raccolti in un’unica teoria glaciale fu lo svizzero, e grande amico di De Charpentier, Louis Agassiz (1807-1873). Dapprima scettico, fu convinto della bontà delle asserzioni dei suoi predecessori da un’intensa attività di campo e dall’aiuto di altri amici scienziati. In definitiva, sostenne nel 1837, l’Europa settentrionale, l’Asia e le regioni nordamericane erano state ricoperte in un lontano passato da una spessa coltre di ghiaccio, con ghiacciai tanto sviluppati da poter risalire attraverso la valle del Rodano fin alla catena del Giura. Ora si riconoscevano chiaramente altri segni del passaggio dei ghiacciai, come ad esempio le rocce montonate (o a dorso di balena) e le strie glaciali , un tempo erroneamente attribuite a segni lasciati dagli scarponi degli alpinisti!!!
Incominciò così un intenso lavoro di studio su tutto l’arco alpino e in altre parti d’Europa che portò a riconoscere non solo una, bensì 5 ere glaciali: come una filastrocca, dalla più antica, le glaciazioni erano note come Donau (Danubio), Gunz, Mindel, Riss e Würm, freddissimi periodi, in cui vennero spazzate via numerosissime specie animali e vegetali, intervallati da periodi più caldi, favorevoli a nuove esplosioni vitali.
Oggi siamo a conoscenza di un numero ben superiore di oscillazioni climatiche (secondo alcuni sarebbero 15, secondo altri ancor più numerose) e periodi di freddo più o meno intenso, ed il proseguire degli studi condotti in varie discipline scientifiche ha permesso di riconoscere definitivamente la natura dei laghi alpini.
I “genitori” dei laghi alpini
Sembrava quindi assodato che, in seguito all’espandersi ed al ritirarsi dei ghiacciai, l’Italia settentrionale avesse assunto l’aspetto che ormai ben conosciamo, con una catena montuosa di grande elevazione, valli incise da fiumi e torrenti, una serie di laghi disposti tutti perpendicolarmente all’asse della catena alpina ed una bordatura a valle composta da dolci e fertili colline moreniche, sfruttate già dall’uomo del Neolitico. Un caso assai eclatante è quello del lago di Garda, in cui l’ultima lingua glaciale, ritirandosi circa 15.000 anni fa, lasciò un ampio anfiteatro morenico e, a monte, lo spazio per l’invaso del lago .
Quando però furono possibili le operazioni di scandaglio e sezione sismica del fondale dei laghi alpini, ci si rese conto che i ghiacciai non potevano essere gli unici responsabili della loro genesi. Visti in sezione il Verbano, il Lario, il Ceresio, il Sebino ed il Benaco (ma si riscontra lo stesso fenomeno anche nei bacini svizzeri) mostravano indiscutibilmente una forma a V.
L’origine primaria dei laghi alpini andava, quindi, ricercata in un fenomeno geologico avvenuto 7-8 milioni di anni prima, nel Miocene. Le forze tettoniche globali avevano chiuso lo stretto passaggio tra Atlantico e Mediterraneo, rendendo quest’ultimo un bacino completamente chiuso. Gli apporti delle precipitazioni, che si fecero più scarse, e dei fiumi non riuscivano a controbilanciare l’evaporazione (il Mediterraneo è un bacino negativo ed il suo livello rimane costante solo grazie alla comunicazione con l’oceano attraverso lo Stretto di Gibilterra). Ne risultò un progressivo e totale essiccamento, testimoniato da sedimenti evaporitici, come il gesso ed il salgemma che affiorano lungo tutto l’arco appenninico (Formazione Gessoso Solfifera): ciò che in geologia è conosciuto come crisi Messiniana. I fiumi continuarono la loro azione erosiva, scavando valli strette e profonde che avrebbero fornito una guida alle masse glaciali in successiva espansione.
Quando si ristabilì il collegamento con l’oceano, dapprima il mare inondò terre precedentemente emerse, poi retrocesse con il raffreddamento climatico, lasciando il compito di disegnare l’attuale topografia ai ghiacciai . L’azione combinata, inoltre, di acqua liquida e solida ha conferito ai laghi alpini profondità notevoli, con il record per l’Europa detenuto da quello di Como con ben 410 metri
Oscillazioni a breve scala
La climatologia ha fatto notevoli progressi negli ultimi due decenni, grazie specialmente alle tecniche di indagine sofisticate applicate su campioni di ghiaccio, le cosiddette carote . La calotta antartica ed i ghiacci della Groenlandia hanno funzionato da registratore di tutti gli eventi climatici, conservando al loro interno polveri, pollini, ceneri vulcaniche e, soprattutto, bolle d’aria che sono rimaste intrappolate durante la compattazione del ghiaccio stesso. Applicando differenti analisi chimico – fisiche sugli isotopi dell’ossigeno (in particolare quelli designati dalla dicitura O-16 ed O-18), dell’idrogeno e sulle molecole d’aria, di anidride carbonica e metano, è stato possibile ricostruire una scala delle oscillazioni climatiche per intervalli di tempo relativamente brevi. Tra questi, la cosiddetta Piccola Età Glaciale, un periodo di circa 50-70 anni tra il 1500 ed il 1600, in cui le temperature medie scesero di parecchi gradi, determinando inverni più rigidi di quelli odierni e che costarono un numero ingente di vite in tutta Europa.
Ciò significa che il clima globale ha subito notevoli variazioni anche a scala storica, con effetti non così appariscenti come le glaciazioni, ma segnalati sicuramente da avanzate nette dei ghiacciai alpini, testimoniate ad esempio dai cosiddetti “ghiacciai di pietra” o Rock glaciers. Ai giorni nostri il clima si è notevolmente modificato: le piogge sono molto più concentrate e violente, gli inverni sono caratterizzati da minori precipitazioni nevose, ed i ghiacciai si stanno ritirando per un indiscusso aumento della temperatura, dovuto in gran parte a fenomeni geologici (grandi incendi, eruzioni vulcaniche) e a variazioni dei parametri orbitali. Questo fenomeno, tipico della dinamica terrestre, è però accentuato dalle emissioni di polveri e gas dovute alle attività industriali ed al riscaldamento delle città, che determinano ulteriori scompensi nella circolazione atmosferica ed arrivano ad intaccare persino lo scudo dell’ozono.