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In origine il termine greco sophistes “sapiente” era sinonimo di sophos “saggio”, così si indicavano i Sette sapienti, Pitagora e quanti si distinguevano per virtù e conoscenza. È nell’Atene democratica del V secolo che il termine viene utilizzato per designare quei sapienti che facevano del loro sapere una professione, insegnandolo dietro pagamento, cosa che non poteva essere accettata da filosofi come Socrate, Platone o Aristotele che li additarono come commerciati di merce spirituale.
Il mondo dei sofisti è quello della polis, un mondo di tecniche, di professioni, ma soprattutto il mondo del dibattito pubblico, in cui diventa fondamentale prendere la parola in assemblea per far vale il proprio punto di vista con un discorso efficace, e perché un discorso sia efficace è necessario conoscere le varie sfumature che ogni parola può avere a seconda del contesto, in poche parole bisogna conoscere l’arte dell’eloquenza.
La questione dell’archè della natura non è più l’interesse primario dei sofisti che pongono al centro della loro attenzione l’uomo visto all’interno della polis e quindi come cittadino e soggetto politico.
Cos’è la virtù? È possibile insegnarla? Cos’è la giustizia? Qual è il fondamento delle leggi di uno Stato? Queste sono le domande che si pongono i sofisti e che chiamano in causa il problema della verità e della conoscenza. I temi della tradizione filosofica precedente, quali la distinzione fra essere e non essere, realtà e apparenza, opinione e scienza vengono adesso ripensati al fine di comprendere la complessa realtà sociale della polis del V secolo e di trovare delle regole valide che permettano agli uomini di orientarsi al suo interno.
Il terreno su cui avviene la ricerca della verità è quello del dibattito pubblico, uno spazio interamente umano, in cui non vi è più posto per una verità assoluta, valida per tutti perché specchio dell’immutabile natura delle cose. Nell’agorà gli uomini combattono per imporre il proprio punto di vista, argomentandolo e motivandolo, nel confronto intersoggettivo ogni verità è relativa alla prospettiva e al campo di attività dei soggetti coinvolti. È nel rapporto dell’uomo con il mondo e con gli altri che si distingue il vero dal falso.
Protagora. L’uomo misura di tutte le cose
Sarà proprio uno dei maggiori esponenti della sofistica, Protagora di Abdera, a valorizzare il legame fra verità ed esperienza. Nel più celebre frammento che ci è giunto, afferma:
L’uomo è misura di tutte le cose, delle cose che sono in quanto sono e delle cose che non sono in quanto non sono.
Nel dialogo Teeteto, Platone spiega così il pensiero di Protagora
Quali le singole cose appaiono a me, tali sono per me e quali appaiono a te, tali sono per te per: giacchè uomo sei tu e uomo sono io.
Una concezione relativistica della verità secondo la quale ogni uomo giudica le cose in base alle proprie esperienze personali, ma anche in quanto uomo e quindi appartenente ad una specie che ha determinate caratteristiche e in quanto membro di una società che ha una sua storia, una sua cultura e dei suoi valori.
Una concezione pragmatica della verità, per cui conoscere il mondo per Protagora significa migliorarlo: curare i corpi se si possiede l’arte della medicina, rendere giusta e ordinata la polis se si possiede l’arte della politica.
Una concezione della verità che s’identifica con ciò che di volta in volta è utile per il bene della città e dei cittadini. L’uomo è misura di tutte le cose perché è in grado di giudicare della validità dei discorsi in base al loro grado di utilità, ma anche di universalità in quanto può elaborare discorsi che rispecchino i diversi punti di vista della società mediando fra le opinioni particolari. Ma l’uomo non può stabilire la verità di un discorso: il logos non rispecchia in modo univoco la realtà, né è in grado di cogliere la realtà ultima, immutabile ed eterna al di là del fluire perenne attestato dai sensi.
I dissoi logoi
Nell’opera Antilogie, Protagora afferma che per ogni esperienza esistono due discorsi in contrasto fra loro. Ciò significa che di ogni realtà, partendo da prospettive diverse, è possibile sostenere due tesi contraddittorie senza potere decidere razionalmente della verità dell’una o dell’altra. La teoria dei dissoi logoi “discorsi doppi” di Protagora apre un divario fra la realtà, misteriosa e inafferrabile, e il logos in grado di riprodurne solo le contraddizioni.
Per il filosofo di Abdera però esiste una via d’uscita e la chiave sta appunto nell’uomo misura di tutte le cose, nell’uomo che giudica in base al criterio di utilità. per il sofista Gorgia di Lentini, invece, il divario sarà incolmabile.
Gorgia: nulla esiste, nulla è conoscibile, nulla è comunicabile
Nella sua opera principale Intorno al non ente o Sulla natura, Gorgia colpisce il cuore della filosofia di Parmenide, ovvero l’identità fra realtà, verità e linguaggio, demolendo la concezione per cui parole e cose s’identificano al punto tale che nominare una cosa significa affermarne l’esistenza. Tre sono le tesi fondamentali del filosofo di Lentini:
Nulla è.
Se anche qualcosa esistesse, questo dovrebbe essere o l’essere o il non essere o l’essere e il non essere insieme. Il non essere non è possibile perché non c’è; se fosse essere, dovrebbe essere o eterno o generato, se fosse eterno, non ha inizio, è infinito e quindi non è in alcun luogo e se non è in nessun luogo non esiste. Se fosse generato, dovrebbe nascere o dall’essere o dal non essere, dal non essere non è possibile perché niente nasce dal nulla, ma nemmeno dall’essere, perché è già essere.
Se anche qualcosa fosse, sarebbe inconoscibile.
Se è vero che non possiamo dire che le cose pensate esistano, è anche vero il contrario ovvero che l’essere non può essere pensato. Che le cose pensate non esistano è attestato dall’esperienza comune, infatti non perché uno pensa un cane che vola, un cane si mette a volare.
Se anche fosse conoscibile, sarebbe incomunicabile.
Se anche le cose esistenti fossero percepibili con i sensi, non per questo si potrebbero comunicare. Noi vediamo con la vista e udiamo con l’udito, mentre comunichiamo con la parola. Ma la parola non è l’oggetto, allo stesso modo in cui non possiamo vedere con l’udito, e il visibile non può diventare udibile, la parola che è in noi non può diventare l’oggetto che è esterno da noi.
Dunque per Gorgia la parola non può descrivere la cosa per ciò che essa è veramente, il linguaggio vive in una dimensione parallela, non è legato alla natura delle cose, non rispecchia la verità, però può produrla, creando persuasione.
L’invenzione della retorica
Nella sua opera Encomio di Elena, il filosofo siciliano individua due funzioni del linguaggio: una critica, ravvisabile nella dialettica – intesa come dimostrazione della verità di una tesi attraverso la confutazione della tesi opposta – che Zenone aveva utilizzato per difendere le tesi parmenidee, mentre Gorgia usa per demolirle; e una costruttiva, ravvisabile nella retorica. Se la dialettica abbatte ogni pretesa del linguaggio di esprimere la verità, la retorica ripensa il rapporto fra verità, realtà e parola.
L’invenzione della retorica si fonda sul potere comunicativo della parola, la quale facendo leva sull’emozioni dell’animo umano, può formare l’opinione e determinare l’azione umana. Il linguaggio produce verità nella misura in cui fa sì che qualcosa venga creduto, dando una sia pure temporanea stabilità e coerenza a un mondo altrimenti caotico e incoerente.
La retorica sfrutta abilmente il potere creativo ed evocativo delle parole con l’uso di metafore e immagini che smuovono l’anima umana, ecco perché il linguaggio retorico presenta delle somiglianze con quello poetico, in quanto entrambi creano con le parole immagini che, pur non rispecchiando la realtà misteriosa delle cose, producono emozioni che risvegliano l’animo umano mettendolo in sintonia con la natura.
Sia per Protagora che per Gorgia, quella verità che il logos non può cogliere in modo assoluto e universale, si trasforma nella sfera pratica nel dominio che l’uomo può avere sulle cose e sugli altri.