Noi chiamiamo rapsodica la poesia omerica perché gli antichi chiamavano rapsodoì coloro che la professavano, è termine specifico di contro a aoidòs generico che indica anche Eschilo. Rapsodia è composto di rapto = cucire + odè = canto; per spiegarlo è necessario indagare i termini che in greco indicano metaforicamente la composizione poetica: i campi semantici sono numerosi, attingono a diverse attività, ad esempio è attestato una volta (Od XXIV) teuchein, fare qualcosa, fabbricare, teuchein aoidèn, è sottesa un’attività artigianale; sempre in Omero abbiamo entùnein, harmòzein, daidàllein, ergàzesthai aoidèn; l’oggetto è il termine primario per indicare la poesia. Poièo non compare prima del V secolo (Democrito, o Erodoto) e da Platone la poìesis diventa il fare poetico, il fare per antonomasia. Questo passaggio lessicale sottolinea che all’inizio il tratto saliente era il cantare, l’atto esecutivo, come se quello creativo non avesse importanza, si dà per scontato, non emerge; quando poièo assume il nuovo valore, il centro di gravità del poetare si sposta sulla creazione, è il contrassegno del passaggio tra poesia tradizionale e poesia individuale; al tempo della poesia tradizionale il cantore non si vanta di ciò che ha creato, ripete ciò che le Muse gli hanno trasmesso, solo le Muse sono state presenti ai fatti che raccontano, e lui racconta i klèa andròn perché ne è stato informato dalle Muse. Metafora del poeta è il fabbro, comune alla poesia italiana (Dante Purg XXVI su Guinizzelli), anche in Carducci c’era frequente questa metafora; in Grecia sono presenti queste metafore a partire dal V secolo (Eschilo Agamennone, Cassandra descrive quello che sta accadendo, l’uccisione di Agamennone, e il Coro risponde epìfoba melotupeìs, canti fabbricandole cose spaventose, si ha l’immagine del fabbro che batte tùpto l’incudine). Nella poesia scaldica, medievale di corte dotta di ambito vichingo, con versi ricchi di complesse e ardite metafore, si ha come termine che indica la poesia smida, inglese smith = fabbro; non è una metafora antica, la stessa attività metallurgica non è molto più antica della letteratura, è un processo graduale la produzione di un campo semantico così familiare da attingerne. Altro campo è quello del carpentiere, tèkton, i poeti sono tèktones epèon; Pausania riporta un verso della poetessa <boiò che riporta il verso di un poeta altrettanto antico della Licia, in cui compare questa stessa metafora (verbo tektaìno). Altro campo è quello del tessere o del filare, numerosissime le metafore attinte da esso: tessere = hufaìno, intrecciare = kataplèko; è metafora indoeuropea, la si trova già nell’avestico, in cui il verbo vaf significa il dire del poeta, radice indoeuropea che si ritrova nell’inglese weave. L’idea del filo è comune nel nostro parlare (perdere il filo, dire per filo e per segno, katà mìton eklogìzomai), è l’idea di qualcosa che si prolunga nello spazio. In greco oìme / oìmos = striscia, al maschile strada, striscia di forma allungata; oìme è termine tecnico dell’attività poetica, indica la via che il cantore percorre, filone tematico, uno degli argomenti adoperabili; pensa al prooìmion, ciò che apre il poema, proposizione del contenuto che seguirà; paroimìa = proverbio, sta a fianco dell’intreccio, non è genere narrativo ed è fuori dalla oìme; testo da textus = tessuto. Dunque non stupisce che rapsodòs sia un cantore che cuce il canto; non abbiamo attestata in poesia la parola rapsaoidìs perché non entra nell’esametro, lo pseudo-èsiodo dice ràpsantes aoidèn. Il problema è però l’interpretazione della metafora, bisogna capire cosa significava per gli antichi tessere e cucire un canto, non creavano lunghi pezzi e cucivano assieme, ma dal telaio usciva il vestito con pochi ritocchi da fare, non si tessono lunghi rotoli. Ràpto vuol dire intrecciare, può avere come oggetto qualunque tipo di fibra o corda; dunque rapsodo è chi connette tra loro fili delle oìmai, e ne esce un intreccio.
Aristotele parla dell’Iliade come mìa pràxis polimerès, un’azione sola costituita da molte parti; si è sottolineato il mìa per definirla unitaria, a leggerla nella trama sembra che il disegno sia unitario; unitarietà però costituita da molte parti, cosa che non è stata invece evidenziata, si è cercato di dimostrare quanto Omero superi la poesia tradizionale e orale, cosa insostenibile. L’Iliade è fatta da tante componenti intrecciate insieme, non è chiaro come ma ci sono stati contributi significativi come quello di Parry. Le storie che erano raccontate erano conosciute, quindi il cantore doveva strutturarle (partire da un punto qualunque, hamòthen), dare successione logica, e mettere in versi il racconto, in particolare in esametri, versi rigidi difficili da comporre. È per questo che il cantore ha a disposizione una lingua specializzata, che gli permette di combinare frasi e versi; non siamo certi sul come si è costituita questa lingua, ma è dimostrabile che la tradizione esametrica nasce in età micenea (1200-1050 circa). Questo è ciò che ha descritto Milman Parry. Questi parte dalle considerazioni dei linguisti, che avevano concluso che la lingua dell’epica è tradizionale: Parry cita versi tragici, lingua della tragedia anch’essa mista: immagina di tradurre in attico versi corali dell’Edipo a Colono, potrebbe farlo senza intaccare la metrica; non altrettanto delle alternative linguistiche a disposizione del poeta epico, che ha possibilità sempre metricamente diverse. Ricorda che ci vuole del tempo perché si fissi una sola forma per la stessa funzione grammaticale, e lo stesso per la selezione di quelle forme che costituiscono ciascuna un’alternativa metrica, non può essere uno stile forgiato da un singolo.