La pubblicazione degli Emblemata di Alciati, nel 1531, porta nel giro di pochi anni alla formazione di un nuovo genere letterario destinato a caratterizzare gusto, cultura e meditazione critica per circa due secoli. L’emblematica diventa una vera filosofia dell’espressione figurata su cui si innestano elementi delle teorie linguistiche neoplatoniche, supportate dalla riscoperta di testi della tradizione esoterica. L’impresa, che mette sempre più l’accento sul motto, sviluppa l’emblematica in direzione del concettismo secentesco.
La nascita dell’emblematica
La pubblicazione degli Emblemata (1531) del giurista e umanista Andrea Alciati porta in un breve giro di anni alla formazione di un nuovo genere letterario destinato a caratterizzare gusto, cultura e meditazione critica per circa due secoli. L’opera di Alciati (di cui escono quasi 170 edizioni) è composta da una serie di epigrammi di contenuto morale e di ispirazione mitologica cui lo stampatore aggiunge piccole figure illustrative.
Nelle intenzioni dell’autore l’emblema corrisponde al solo epigramma, ma l’immagine passa velocemente dal ruolo di semplice ornamento a quello sostanziale, sia per la nuova importanza che la cultura visiva assume a livello collettivo sia per i progressi tecnici favoriti dall’arte della stampa. Così l’emblematica, rapidamente diffusa in tutta Europa, diventa una vera filosofia dell’espressione figurata su cui si innestano elementi delle teorie linguistiche connesse al neoplatonismo, supportate dalla riscoperta di testi della tradizione misterica come gli Hieroglyphica di Orapollo, stampati da Aldo Manuzio già nel 1505 e poi tradotti in latino da Fasanini nel 1517.
Con i Symbolicarum quaestionum libri quinque di Achille Bocchi (1555) si arriva alla raccolta più rilevante, dove i testi latini vengono accompagnati dalle composizioni artstiche di Giulio Bonasone, spesso ispirate alla pittura coeva. Costante rimane l’uso del latino, adatto alle modalità di una conoscenza superiore che si ricollega alla lingua sacra degli Egizi.
Nel 1556, Pietro Valeriano, ispirandosi alle epigrafi di Orapollo, tenta in 58 libri una spiegazione simbolica di entità naturali e artificiali (dagli animali alle piante, dai frutti alle pietre, dalle acque ai pianeti, dalle medaglie ai vestiti). Secondo questa logica, ogni aspetto figurato — dall’emblema alla decorazione — richiede un processo che permetta di riconnettere l’immagine al motto che l’accompagna, con un procedimento metaforico che porterà alle teorie seicentesche dell’ingegno.
L’arte delle imprese
L’arte delle imprese, a differenza dell’emblematica, sceglie spesso il volgare o le lingue straniere per i motti; è dedicata a un pubblico ampio e si pone un fine giocoso e divulgativo, come spesso si deduce dalla natura dialogica dei testi che ne parlano. Secondo Robert Klein, il termine “impresa” corrisponde al francese devise, e infatti francese è la prima raccolta, le Devises heroiques di Paradin, pubblicate a Lione nel 1551. Come testimonia Paolo Giovio in un passo del Dialogo dell’imprese militari et amorose (composto intorno al 1550), la moda della devise viene importata in Italia dagli ufficiali di Carlo VIII: un’origine militare, dunque, utile soprattutto per distinguere gli uomini in battaglia con armi e bandiere vistosamente dipinte.
Nella società lionese, dove circolano parecchie edizioni di Alciati, il letterato fiorentino Gabriello Simeoni cura nel 1559 un’edizione di Giovio, arricchita di nuove imprese. È il segno della fortuna di un’opera che possiamo considerare la più importante testimonianza del genere, anche per il carattere normativo in essa contenuto.
Nel Ragionamento sopra i motti e disegni d’arme e d’amore che communemente chiamano imprese, Giovio stabilisce le cinque condizioni della perfetta impresa: la giusta proporzione di figura e motto, la non eccessiva oscurità del messaggio, la bellezza, l’esclusione della forma umana dalla figura, la presenza indispensabile del motto, “che è l’anima del corpo”.
Tali regole, poi riprese e variate nei trattati seguenti, dimostrano il legame dell’impresa con l’arte mnemotecnica e la sua anticipazione della rappresentazione autobiografica. Le prime raccolte, infatti, contengono solo imprese legate al mondo militare, di cui si trovano tracce anche nella cultura quattrocentesca (per esempio nelle Stanze del Poliziano), ma quando l’arte raggiunge i salotti acquista un carattere esplicitamente mondano di confessione velata che unisce in un gioco astuto emittente e destinatario.
Secondo Scipione Bargagli, l’Accademia degli Intronati di Siena intorno al 1580 diventa centro di elaborazione di questo genere di “opere belle e ingegnose”, e la discussione mondana si complica spesso di elementi filosofici e letterari che riutilizzano elementi della cultura misteriosa legata al linguaggio primitivo e cabalistico, nell’illusione di forme espressive più intense. Nel 1556 il poligrafo Girolamo Ruscelli parla delle imprese come “ritrovamenti o invenzioni nostre proprie per accennare o additare al mondo qualche nostro particolar pensiero”, e sottolinea il mutuo rapporto tra figure e sentenza, anche se per lui, come poi per Domenichi, la figura può prescindere dalle parole. In questo modo, ogni immagine dotata di significato all’interno di un contesto può diventare impresa, sebbene l’espressione fatta di figura e scrittura risulti essere la più complessa e completa: l’impresa congiunge infatti il linguaggio innato dell’imitazione con il linguaggio articolato appreso. Facendo un passo in avanti, Francesco Caburacci, nel Trattato dove si dimostra il vero e novo modo di fare le imprese (Bologna 1580), sottolinea che nell’attività espressiva dell’impresa il concetto viene manifestato indirettamente attraverso un altro concetto. L’impresa, in quanto figura, cioè metafora, condivide le capacità rappresentative della poesia.
Impresa e poesia
L’immagine al centro dell’impresa nasce per illustrare una metafora: con il passaggio dalla figura retorica alla rappresentazione figurata ci si avvicina a uno dei procedimenti centrali del concettismo secentesco. Nel 1562 con il Rota overo dell’imprese, Scipione Ammirato insiste sulla dipendenza reciproca di parole e cose. Se l’anima dell’impresa sono le parole e il corpo coincide con la cosa rappresentata, bisogna che nessuno dei due elementi assuma una posizione strumentale rispetto all’altro: “dall’anima e dal corpo insieme giunti si interpreta da colui che vede e che legge l’occulto pensiero dell’autore”.
Il parallellismo tra impresa e poesia continua poi, nel ragionamento di Ammirato, con le formule di “filosofia del cavaliere” per la prima e “filosofia del filosofo” per la seconda. Il rapporto si andrà approfondendo sulla scorta dell’effetto di meraviglia che nasce appunto dall'”accoppiamento di due cose intelligibili”, per cui ne deriva una terza, mista. Già nel 1575 infatti Giovanni Andrea Palazzi può arrivare alla dichiarazione che “l’impresa è un poema”, ed enumerare gli elementi che caratterizzano insieme le due forme di espressione.
Secondo le recenti interpretazioni, si apre una seconda fase della storia dell’impresa, nel momento in cui la componente verbale acquista preponderanza per l’effetto meraviglioso che produce, essendo il motto, secondo la definizione del Tasso, “quasi divino intelletto”. Nel 1586 Stefano Guazzo, nel quinto dei suoi Dialoghi piacevoli, può sostenere la modernità dell’impresa e la sua superiorità sull’emblema, indicandone ancora una volta le caratteristiche di preziosismo intellettuale: “E per tanto essendosi avveduti con successo di tempo i pellegrini ingegni che questi emblemi sono o troppo aperti o troppo umili, si sono rivolti ad adombrare i suoi secreti pensieri col finissimo velo delle imprese, le quali sono assai più regolate, più difficili e più eccellenti di quel che siano gli emblemi”. Successivamente Scipione Bargagli (1594) parla dell’impresa come prodotto dell’ingegno, in cui si uniscono similitudine e acutezza.
Insistendo sul gioco intellettuale, sulla realizzazione artificiosa di un’idea concepita anteriormente (elementi che ritorneranno nel dialogo II conte del Tasso), la teoria platonica del simbolo ha portato a una teoria aristotelica sulla quale può prendere awio la speculazione barocca della poesia.